Neoclassicismo

Neoclassicismo e preromanticismo

Benché il neoclassicismo sia stato generalmente considerato l’antitesi del romanticismo, interpretazioni storiche più accorte hanno recentemente scorto in questa rievocazione nostalgica di una civiltà perduta una fase del movimento romantico, più che un’opposizione ad esso. Già dagli anni Settanta del Settecento, decennio dello Sturm und Drang tedesco e di altre precoci manifestazioni del romanticismo, numerosi artisti dell’Europa settentrionale utilizzano l’arte e le fonti letterarie classiche per realizzare pitture o disegni il cui carattere appassionato, terrificante o bizzarro, raggiunge toni parossistici. Questa tendenza è particolarmente ben rappresentata dall’artista svizzero Heinrich Füssli, personalità di grande cultura, traduttore di Winckelmann, attento al mondo «romantico» di Shakespeare e della mitologia nordica. I soggetti classici che Füssli sceglie sono assai lontani dal repertorio eroico o rococò della maggior parte dei pittori neoclassici francesi e italiani; l’artista è particolarmente attratto dai soggetti scaturiti da un’immaginazione visionaria o da una torbida sensualità. La sua interpretazione della scultura e della pittura classica fa emergere qualità di energia sovrumana o di voluttà perversa che non sono prive di rapporti con i manieristi italiani. La potenza evocativa nella messa in scena di elementi fantastici e torbidi si riscontra in altri artisti della generazione di Füssli, come l’irlandese James Barry, l’inglese John Hamilton Mortimer e il danese Nicolai Abildgaard: questi, come Füssli, ricercano sia nell’antichità che nelle saghe nordiche coinvolgimenti irrazionali e manifestazioni del soprannaturale; pur nelle differenti sigle, lo stile di questi artisti tende ad accentuare le deformazioni grottesche dei personaggi e i macabri effetti di luce, in sintonia con la nuova estetica romantica del sublime. La complessità culturale degli anni in cui viene collocata comunemente l’esperienza neoclassica rende impossibile individuare un linguaggio neoclassicista più autentico di altri. Infatti dal punto di vista iconografico la pittura neoclassica presentava varietà non minore, poiché attingeva a un repertorio assai vasto, dai vasi arcaici greci alle sculture della Roma imperiale, da Michelangelo ai manieristi italiani a Salvator Rosa fino a Poussin, Le Brun alla tradizione bolognese. Comunque è possibile riconoscere nel pittore francese Jacques-Louis David un momento di sintesi delle molteplici esperienze intellettuali di questo periodo. La sua produzione figurativa costituisce un momento catalizzatore per l’intero neoclassicismo e un modello per la cultura che matura intorno a lui. Fu attraverso la sua geniale creatività che fu possibile operare una scelta decisa e netta tra le molteplici possibilità offerte dal neoclassicismo. Fu appunto questo il ruolo di Jacques-Louis David, allievo di Vien. Fino al primo soggiorno di David a Roma, come laureato Prix de Rome (1775-80), la sua arte rimase tributaria del rococò e in ritardo in rapporto ai canoni classicisti degli anni Sessanta e Settanta. Ma i suoi studi romani gli consentirono di rinnovare lo stile in ragione non soltanto di un maggiore entusiasmo per l’ideale di bellezza dell’arte classica, ma anche della sua intima conoscenza della pittura italiana del XVII sec. Avendo contemporaneamente assimilato il realismo e l’idealismo della scultura romana, la lezione naturalista di Caravaggio e quella classica dei Carracci, David fu in grado di rinvigorire le tendenze neoclassiche di artisti di livello minore come West e Hamilton, contribuendovi con una conoscenza approfondita dell’anatomia, un saldo senso della costruzione geometrica, e l’aura che si connette a un proposito altamente morale. Negli anni Ottanta del Settecento, eguagliando per rigore di stile e per il carattere eroico dei temi, maestri come Jean-François-Pierre Peyron e Jean-Germain Drouais, David eseguì una serie di capolavori che fecero di lui, sul piano internazionale, il propagatore di una nuova fede, estetica e morale, nell’antichità. Il Giuramento degli Orazi, eseguito ed esposto in un primo tempo a Roma, poi a Parigi al Salon del 1785 (Parigi, Louvre), divenne così il manifesto del movimento neoclassico in pittura: l’opera combinava con forza l’eroismo di un tema romano (il giuramento di fedeltà alla patria) con uno stile rigorosamente controllato che sottolineava quest’ardente proclamazione di virtù civica. Esaltando i meriti di una forte volontà e il rigore di un ordine visuale, gli Orazi segnarono in Europa la fine dell’Ancien Régime in pittura, preannunciando quell’idealismo fervido che fa da sfondo intellettuale alla Rivoluzione. Così il neoclassicismo di David venne presto associato all’attività politica rivoluzionaria; i suoi drammi classici composti nel corso degli anni Ottanta, con uno spirito di venerazione per il patriottismo greco e romano e per il sacrificio di sé (Ettore, Socrate, Bruto) vennero rapidamente trasposti, negli anni Novanta, in una sacralizzazione degli eroi moderni, come Le Peletier de Saint-Fargeau, Marat e Bara. Il rigore stilistico inaugurato da David portò la ricerca del linguaggio a forme estreme di segno puro. John Flaxman pubblicò negli anni Novanta originalissime illustrazioni per Omero ed Eschilo; esse si ispiravano alle linee purissime dei pittori di vasi greci che allora si collezionavano e che erano occasione di frequenti pubblicazioni. Riducendo il linguaggio pittorico alla purezza del tratto su un fondo bianco, le incisioni di Flaxman indicavano agli artisti quale dovesse essere il livello di azzeramento formale da cui avviare una ricostruzione del linguaggio moderno. Prendeva l’avvio da qui una sorta di primitivismo dagli esiti molteplici (William Blake, Philipp Otto Runge). Il tedesco Asmus Jakob Carstens, attivo a Roma negli anni Novanta, arriva ad uno stile di tale severità ed astrattezza, che giunge ad abbandonare persino la tecnica della pittura a olio per quella a tempera senza modellato, o per il semplice disegno al tratto. Questa ricerca di uno stile sempre più arcaico caratterizzava anche l’ambiente erudito ed artistico raccolto attorno a Goethe, a Weimar, intorno al 1800; gli artisti, illustrando temi ripresi da Omero o ricostruendo pitture classiche perdute, usavano un linguaggio pittorico estremamente semplice, che si richiamava alle origini della civiltà classica. All’inizio del XIX sec., la dottrina neoclassica intesa nel suo aspetto più radicale era egemone, e la maggior parte delle opere di quegli anni, dovute a italiani come Vincenzo Camuccini o a tedeschi come Gottlieb Schick, possono considerarsi il riflesso di stili e temi già ormai consacrati alla fine del XVIII sec. Ma la quantità e la qualità della produzione restarono privilegio di Parigi, il centro più importante e più fecondo del neoclassicismo, grazie a David e alle centinaia di giovani artisti venuti a lavorare nel suo studio da paesi remoti come la Spagna, la Danimarca, gli Stati Uniti o la Russia. Dopo le Sabine, lo stile dello stesso David si orientò verso un’interpretazione dell’antichità più manierata e preziosa, come dimostra l’eleganza leggera di ritratti quale quello di Madame Récamier (1800: Parigi, Louvre). Tale tendenza al preziosismo si accentuò negli allievi di David, che a loro volta abbandonarono il genere bellicoso e virtuoso degli anni della Rivoluzione e tramutarono i principi davidiani in uno stile raffinato e sofisticato donde spesso si sprigionava un’aura romantica. Già al Salon del 1793 l’Endimione di Anne-Louis Girodet-Trioson (Louvre) forniva una curiosa interpretazione di un tema classico come quello di Endimione, ripreso da un sarcofago, poiché assumeva come unica fonte di luce il riflesso lattiginoso della luna, e costruiva i personaggi con un modellato molle e sinuoso che, combinato con la qualità marmorea dei contorni, produce quell’impressione di gelido erotismo cosi frequente in tante pitture e sculture neoclassiche. Opere come l’Endimione appartengono a quel mondo segreto e lunare che si ritrova nella pittura di un contemporaneo di David che non fu, peraltro, tra i suoi allievi, Pierre-Paul Prud’hon: la sua arte graziosa e malinconica è stata alternativamente associata dal neoclassicismo e dal romanticismo, e il suo esempio dimostra fino a qual punto sia mobile la linea di demarcazione tra i due apparenti antagonisti. Il crescente fascino esercitato dalle regioni remote e misteriose doveva introdurre nella cerchia davidiana temi di un esotico romanticismo. Ne è testimonianza la Morte di Atala (Salon del 1808: Parigi, Louvre), ispirata a Girodet dal patetico racconto di Chateaubriand che narrava la vita dei cristiani presso gli Indiani d’America; ed anche la Cartagine dall’orientalismo pieno di languore evocata in Didone ed Enea (Salon del 1817: Parigi, Louvre) di Pierre-Narcisse Guérin, allievo di Jean-Baptiste Regnault, principale rivale di David. Gli sforzi di David per depurare lo stile e raggiungere la semplicità greca ebbero un’eco intorno al 1800 e in modo abbastanza stravagante, presso i suoi allievi più ribelli e più giovani, chiamati «Primitivi» o «Barbus»; guidati da Maurice Quaï, essi portarono alle estreme conseguenze la vocazione al primitivismo accettando, almeno in teoria, le forme più arcaiche attestate dalle arti e dalle lettere greche. La loro concezione radicale si ritrova, a distanza, nell’arte di F. Gérard, il cui Amore e Psiche (Salon del 1798: Parigi, Louvre) presenta stilizzazioni manierate, superfici lisce e smaltate nelle anatomie proprie della pittura neoclassica; e soprattutto nell’opera di J. A. D. Ingres, i cui primi dipinti, Venere ferita da Diomede (1802 ca.: conservato a Basilea) e Giove e Teti (1811: Aix en-Provence, Museo Granet) si ispirano alle immagini piatte e lineari di Flaxman e dei vasi greci, ma a tali fonti aggiungono una mistura di sensualità e di precisione di dettagli che si trasporrà facilmente nel mondo romantico delle sue odalische e delle sue bagnanti orientali. Nell’arte di Ingres, le premesse di David, astrattismo e realismo, vengono ampiamente utilizzate e superate. Erede della dottrina idealista di David fino ad età avanzata, Ingres fu il più saldo difensore dei principi neoclassici nei due primi terzi del XIX sec., contrapponendosi ostinatamente alle emergenti forze del romanticismo, il cui apogeo si colloca dopo il 1820, col giovane Delacroix. Dall’Apoteosi di Omero (Parigi, Louvre), messa al Salon del 1827 a confronto col Sardanapalo di Delacroix (ivi), fino alla pittura murale l’Età dell’oro del castello di Dampierre (1843-47), Ingres si sforzò di combattere la trasformazione intervenuta nell’arte dell’Ottocento e di contrapporvi la propria fede nell’ideale della bellezza classica, perseguita attraverso uno studio minuzioso delle fonti iconografiche antiche, la preminenza del disegno sul colore e l’uso di composizioni chiare e simmetriche. Simili principi si irrigidirono inevitabilmente nelle mani di accademici di talento minore. La vitalità del neoclassicismo si esaurì dopo il 1840, e le ulteriori interpretazioni del classicismo restarono nelle mani di pittori accademici e conservatori, che più tardi radicalizzeranno lo scontro con il movimento realista e impressionista. Personalità più o meno interessanti popolano comunque questo universo conchiuso nella ricerca di armonie lontane e sfuggenti. Si pensi alla grandezza muta e scultorea degli eroi e delle eroine greche del tedesco Anselm Feuerbach (Ifigenia, 1869: Stuttgart, Staatsgalerie), o alle visioni pallide e fragili dell’Arcadia classica nei gessosi affreschi di Puvis de Chavannes, oppure alle scene quasi pornografiche ove compaiono Veneri e ninfe, numerose nell’opera dei pittori popolari del salon come A. Cabanel e A. W. Bouguereau, o, infine, all’interpretazione aneddotica della vita quotidiana greca o romana, ricostituita con esattezza «cinematografica » da pittori come Gustave Boulanger o Jean-Léon Gérôme in Francia, o L. Alma-Tadema e Frederick Leighton in Inghilterra.

(fonte: Storia dell'arte Einaudi)