La pittura nel XIX secolo - Parte I
Nel 1830 Jacques-Louis David, esponente della pittura neoclassica, era morto da cinque anni. Aveva preso parte in gioventù alla convenzione rivoluzionaria dipingendo incisivi ritratti dei martiri della rivoluzione (Marat, 1793) e votando per l'abolizione dell'Académie de peinture et de sculpture, poiché si trattava di un istituto artistico privilegiato del vecchio regime. Si era quindi votato a Napoleone, celebrandone i fasti e l'impero in una serie di grandi e fredde composizioni di gusto neoclassico. Costretto a lasciare Parigi con la restaurazione, si spense a Bruxelles. L'accademia, risorta come Académie des beaux-arts, distribuiva premi, tra cui l'ambitissimo Prix de Rome, e presiedeva alla selezione delle opere per i Salon. Intorno al 1830 la personalità di maggior rilievo in quest'ambito era Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867), che aveva aderito in gioventù agli ideali romantici, ma per piegare ben presto le sue impeccabili qualità di disegnatore alla resa di temi classici. Con il volgere degli anni la sua arte, pur sempre permeata di un'alta spiritualità, tende a farsi più angusta. La sua carriera artistica presenta strette analogie con quella del tedesco Peter Cornelius (1783-1867), il quale, dopo un analogo esordio di romantica ribellione alle convenzioni dell'accademia, ne divenne il despota tra il 1830 e il 1850. Come Ingres, Cornelius sostenne l'uso del disegno contrapponendolo al colore, e preferì la precisione alla rapidità d'esecuzione, la pittura di soggetto storico, religioso o mitologico ai temi che i giovani artisti andavano proponendo in nome dei nuovi principi.
Chi erano questi giovani e quali fini si prefiggevano? Essi appartenevano alla generazione nata sullo scorcio del Settecento, dai pittori Théodore Géricault (1791-1824), Eugène Delacroix (1798-1863), Camille Corot (1796-1875) al letterato Victor Hugo (nato nel 1802) e al musicista Hector Berlioz (nato nel 1803). Il significato della loro rivolta è forse più noto nell'ambito letterario e musicale che in quello artistico. Ci limiteremo a ricordare lo scandalo che seguì alla prima dell'Hernani (1830) di Victor Hugo, come lo scalpore che fece la sua prefazione al Cromwell (1827), con l'esaltazione della natura, della varietà e dell'ispirazione, dei contrasti violenti, del colore locale, del caratteristico più che del bello, e del dramma quale arte-guida dei tempi nuovi. Anche per Berlioz, al Conservatorio, il decennio 1820-30 segnò una costante rivolta. Al 1827 risale l'ouverture di Waverley, al 1828-29 le otto scene del Faust e al 1830 la cantata ispirata alla Morte di Sardanapalo. Seguirono la sensazionale Sinfonia fantastica, quindi Aroldo in Italia.
Géricault conquistò la fama con La zattera della Medusa (1819), resoconto crudelmente drammatico di un recente naufragio con tutti i suoi orrori debitamente sottolineati. Dipinse inoltre le corse di Epsom, ufficiali di cavalleria su cavalli impennati, e volti di pazzi, ritratti nel manicomio di Parigi con impressionante realismo. L'artista lavorava con un'intensità e una tensione estreme. Alla concitazione della pennellata fa riscontro la concitazione e la brevità della sua vita. Ingres lo definì nemico della «buona, onesta pittura», e lo accusò di corrompere il gusto del pubblico. Tra le prime, maggiori opere di Eugène Delacroix ricordiamo Marino Faliero, la Morte di Sardanapalo, l'Assassinio del vescovo di Liegi (dal Quentin Durward), una serie di litografie illustranti il Faust, il Massacro di Scio e La Libertà che guida il popolo. Indubbiamente questi artisti francesi attivi intorno al 1830 trassero ispirazione dai romantici inglesi e tedeschi, da Byron e Scott e dal primo Goethe, oltre che dagli eventi contemporanei.
Tra i pittori dell'Ottocento Delacroix fu il genio più alto. Il suo Journal e le lettere rappresentano un'incomparabile fonte d'informazione sui contenuti del secondo romanticismo, quello del 1830, che fece seguito al romanticismo più profondo, grandioso, austero e più cristiano dei primi tre decenni del secolo. Per Delacroix, Rubens era l'Omero della pittura: una convinzione, questa, che nessuno dei precedenti pittori romantici avrebbe condiviso. «Padre del colore e dell'entusiasmo» lo definì Delacroix, affascinato dalla sua «energia che è insieme istintiva e mentale». E scriveva ancora, quasi parlando a un tempo di se stesso e del carattere della propria arte: «Egli ci domina, ci sopraffà con tanta libertà e tanto ardire». Ma esistono anche altri passi dei suoi scritti che sembrano contraddire queste affermazioni, ed esprimono ammirazione per Mozart, per Racine, per Raffaello. Vi sono artisti, scrisse, che «non controllano il proprio genio ma ne sono controllati» e altri «che seguono la propria naturale disposizione ma ne sono insieme condizionati ». L'artista di genio, scriveva altrove, non conosce regole, mentre in un foglio assai più tardo la sua definizione di genio indica «un uomo di razionalità superiore». Questo conflitto fra teoria e prassi va sottolineato perché esemplare degli artisti del XIX secolo: già si è menzionato a questo proposito George Gilbert Scott. Delacroix conobbe il successo ma non fu mai popolare, né fondò una scuola. Il suo comportamento sociale riflette il medesimo conflitto fra temperamento e ambizione. Di aspetto tenebroso e romantico, elegante e amante della musica, ebbe a lungo un legame con una nipote dell'imperatrice Giuseppina e per vent'anni ambì ad entrare nell'accademia. Eppure non esitava contemporaneamente a definire il pubblico « questo stupido gregge» e a un amico, che gli raccomandava di non esporre opere troppo rivoluzionarie o ardite, rispondeva: « L'universo intero non potrebbe impedirmi di vedere le cose a modo mio.»
Quale fosse quel suo modo, lo dicono in parte la sua ammirazione per Géricault e lo studio dei capolavori del Louvre. Delacroix andava orgoglioso di essere sostanzialmente un autodidatta, un orgoglio che ricorre frequentemente nei pittori intorno alla metà del secolo e ne esprime la diffidenza nei confronti delle tradizioni acquisite. L'evento decisivo, tuttavia, nel processo di formazione di Delacroix fu la scoperta dell'arte di Constable, presente in tre dipinti al Salon del 1824. Delacroix vi esponeva il Massacro di Scio e poco prima dell'inaugurazione ne ridipinse vari brani per «aprire» le superfici, eliminare ogni pesantezza di modellato e di colore e conferire all'immagine quell'immediatezza che Constable aveva saputo raggiungere per rappresentare la vita perenne della natura. Risale a quel periodo anche l'impetuoso e rapido pennelleggiare di Delacroix. «Quando si poneva di fronte alla tela», scrive Gautier, « dimenticava le sue convinzioni classiche, il suo focoso temperamento di pittore prendeva il sopravvento ed egli eseguiva di getto uno di quei suoi abbozzi veementi e febbrili.» Delacroix fu il primo artista a formulare con chiarezza quello che era già stato il problema di Constable e sarebbe divenuto più tardi il punto chiave per gli impressionisti: conservare nell'opera definitiva la freschezza dei primi schizzi, pur dotandola di quella compiutezza che necessariamente fa difetto negli stadi precedenti dell'esecuzione. Delacroix fu un lavoratore accanito. «Lavoreremo sino all'ultimo respiro», scriveva a cinquantacinque anni. «Che rimane se non ubriacarsi quando giunge l'ora in cui la realtà non eguaglia più il sogno? » La sua opera è vasta e molteplice. Già abbiamo detto delle prime composizioni ispirate alla letteratura romantica. « Ricorda certi passi di Byron se desideri ispirazione eterna», scriveva a ventisei anni. La Libertà che guida il popolo, del 1830, rappresenta una digressione rara, ma non meno significativa, nell'attualità della politica contemporanea. Dopo il 1830 tali digressioni cessano e anche i temi letterari si vanno diradando. La Bibbia d'altro canto continua ad offrire spunti a Delacroix, il quale può ben dirsi l'ultimo artista capace di dipingere opere quali la Lotta di Giacobbe con l'angelo, Cristo sul lago di Genezareth e Il buon samaritano: imprese veramente impensabili in un artista più giovane, nato nell'Ottocento. La tematica religiosa non rifarà la sua comparsa, sia pure sporadicamente, che sul finire del secolo con Gauguin e, nel Novecento, con Rouault e Nolde. Il periodo attorno alla metà dell'Ottocento non espresse una profonda religiosità né grandi entusiasmi, poiché era ancorato ad una visione realistica del mondo. Ed è estremamente significativo sotto questo profilo che Delacroix stesso dopo il 1830 cercasse, per le scene tempestose che aveva in animo di dipingere, spunti più reali e meno improbabili di quelli che gli potevano fornire Byron o la Bibbia. Li trovò in occasione di un viaggio in Marocco, compiuto nel 1831. Quanto vide laggiù di ardore e di violenza, o fantasticò di potervi vedere, gli fornì materia d'ispirazione per il resto della vita: scene di battaglia con sceicchi, schiavi e ratti di donne, o cacce al leone risplendenti di tocchi rosso rubino e verde smeraldo su fondi di un bruno acceso e tracce improvvise di azzurro, eseguiti con una veemenza che la pittura europea non aveva più conosciuto dopo Rubens. Ma i motivi ispiratori dei temi di Rubens, quali il Ratto delle sabine o il Cinghiale di Caledonia, assumevano ora apparenza di contemporaneità. Così Delacroix, sin dal 1830, dava l'avvio al realismo.
Il realismo è il fenomeno centrale del XIX secolo e corrisponde nella sfera artistica al grande sviluppo della scienza e della tecnologia, all'On orìgin of species e al Crystal palace. Nella pittura francese il realismo assume forme molteplici, dalle litografie di Paul Gavarni (1804-66), ispirate alla vita parigina, alle caricature sociali e politiche e ai vividi bozzetti a olio di Honoré Daumier (1808-79) — il teatro (Le drame), una lavandaia col suo bambino, un funerale di terza classe —, alle popolarissime composizioni di genere raffiguranti Luigi XV o Luigi XVI e alle più attuali scene di battaglia eseguite con pedantesca precisione da Jean-Louis-Ernest Meissonnier (1815-91), al limpido incanto dei paesaggi di Corot, e agli alti esiti dei pittori di Barbizon, nella foresta di Fontainebleau. Camille Corot è un altro degli artisti ottocenteschi che non ebbero maestri. « Nessuno mi ha insegnato nulla», scriverà sul finire della vita; «ho lottato da solo con la natura, e questo è il risultato.» E ancora: «La natura si deve interpretare con ingenuità». È proprio questa ingenuità, che fu tra le doti più affascinanti dell'amatissimo «pére Corot», a conferire ai suoi piccoli, semplici paesaggi d'Italia, compiuti tra il 1820 e il 1830, una freschezza e una spontaneità inimitabili. Il solo raffronto possibile è forse con i contemporanei acquerelli di Cotman. Le ben più famose ninfe di Corot, in radure coperte di brume, appartengono ai suoi anni più tardi e sono tra le molte testimonianze di quel venir meno della tensione creativa che caratterizza numerosi artisti dell'Ottocento. Baudelaire, che fu il più sensibile tra i critici d'arte del periodo compreso tra il 1840 e il 1860, situava Corot «alla testa della moderna scuola pittorica», ma con la riserva che se Rousseau avesse esposto di più, tale supremazia non avrebbe forse retto a lungo.
Théodore Rousseau (1812-67) può considerarsi il caposcuola del gruppo di Barbizon. La sua vigorosa pittura di paesaggio appare chiaramente influenzata da quella di Constable. Non è facile dire se il merito di aver tentato vie nuove spetti a lui o ai suoi più anziani compagni di gruppo. È certo comunque che essi trasferirono in Europa i risultati delle ricerche compiute in Inghilterra nella prima metà del secolo, per trasmetterli negli ultimi tre decenni agli impressionisti. Ma più importante dal punto di vista di questa rassegna è forse Jean-François Millet (1814-75), che pure si stabilì a Barbizon nel 1849. Millet scoperse nel XIX secolo i contadini, i lavoratori dei campi: nessuno, dopo Bruegel, li aveva guardati con altrettanta, assorta pietà. Egli non si rese conto tuttavia di prestar loro una dimensione quasi monumentale — in virtù soprattutto degli orizzonti bassi, che conferiscono alle figure una statura più che umana —, tingendoli spesso, ad esempio nel famoso Angelus, di un eccessivo sentimentalismo. Baudelaire fu il solo critico che avvertì acutamente tale pericolo: «I suoi contadini sono pedanti che pensano troppo a se stessi.... Sia pure intenti all'aratro, alla semina, ad accudire o a far pascolare le loro bestie, par sempre che dicano: siamo noi, i poveri e i diseredati della terra, a renderla feconda. Noi compiamo una missione, esercitiamo una vocazione sacerdotale.» Non è senza significato che Millet tenesse tanto a non venir scambiato per un socialista. Qu'est-ce que la propriété? di Proudhon era apparso nel 1840, la sua Philosophie de la misère nel 1846; da allora il realismo artistico — la rappresentazione cioè della vita quale realmente è — poteva ben unire le sue forze al socialismo.
Fu questo il caso di Gustave Courbet (1819-77), il maggiore rappresentante della pittura della seconda metà dell'Ottocento. Delacroix, nato con un anticipo di oltre un ventennio, continuava ad alimentare il fuoco ardente del romanticismo, Corot la sua poesia. Courbet si confessava invece fiero d'essere «senza ideali e senza religione», tanto da intestare, con stile polemico, la sua carta da lettera: «Gustave Courbet, pittore, senza ideali e senza religione». Courbet è, in pittura, l'equivalente delle prime costruzioni inglesi d'epoca vittoriana in architettura: vigoroso, sicuro e grossier. «Io sono il primo e unico artista di questo secolo», diceva di se stesso. Di corporatura imponente e dotato di una risata fragorosa, soleva battere il pugno sul tavolo per manifestare gradimento o disapprovazione e consumava innumerevoli bicchieri di birra mentre lavorava. Si vantava di non aver mai avuto altre intenzioni con le donne se non di divertirle. Della sua vasta produzione, significativi sono alcuni dipinti scopertamente pornografici, e molti di meditata suggestione. Nella letteratura francese gli è affine l'assai più giovane Zola, piuttosto che il contemporaneo Flaubert. Come la maggior parte degli artisti progressisti dell'Ottocento, Courbet fu sostanzialmente un autodidatta; si diceva «allievo della natura». Le opere più significative della sua precoce maturità, intorno alla metà del secolo, meritano un accenno particolare. Anzitutto, gli Spaccapietre, che l'artista eseguì a trentun anni; questo il suo commento: « Non ho inventato nulla. Vedevo quegli infelici ogni giorno passeggiando.» È incontestabile tuttavia che, se pure non inventò, modificò. Il vecchio e il suo giovane compagno appaiono infatti atteggiati in modo da creare un certo assetto compositivo e la materia pittorica rivela una ricchezza e una maestria innegabili. L'effetto è di vita nella sua concretezza, con un accento monumentale pari a quello di Millet, ma senza patetismi. Gli Spaccapietre furono esposti al Salon lo stesso anno del Funerale a Ornans, una tela di grandi dimensioni (cm 275 x 640), volutamente elementare nel taglio, che mostra una folla di figure immobili, come impietrite. La resa è estremamente realistica. Nessuna pietà o commozione sembra turbare gli astanti.
L'Atelier, posteriore di qualche anno, è all'incirca delle stesse dimensioni. Costituiva il polo d'attrazione e insieme il manifesto di quel pavillon du réalisme che Courbet creò per le proprie opere in occasione dell'Esposizione universale, nel 1855. Al centro vi si scorge l'artista intento a una tela raffigurante un paesaggio. Un contadinello e una modella ignuda, i cui abiti giacciono in disordine sul pavimento, lo guardano: poiché chiunque è in grado di capire il suo lavoro. A sinistra, alcuni degli altri suoi modelli, tra i quali un cacciatore, una povera irlandese cenciosa, un ebreo, un becchino, una prostituta; a destra appaiono Baudelaire, che impersona la poesia, Proudhon, raffigurante il socialismo e, tra gli altri, due coppie che rappresentano il libero amore e l'amore mondano.
Allo stesso periodo appartengono anche le Bagnanti, due voluminose figure femminili in un folto bosco, di cui una volge le terga allo spettatore — «la volgarità e vacuità della concezione sono abominevoli», annotava Delacroix —; inoltre Les demoiselles des bords de la Seine, due giovani donne pigramente e voluttuosamente distese in riva al fiume, e L'amaca, dove una figura assai simile alle precedenti mostra un tantino troppo le braccia e il seno: tutte opere rivelatrici della natura sanguigna del pittore. La resa diretta, vigorosa, e la saldezza del modellato consentirono a Courbet di realizzare il suo programma, e insieme di creare alcuni tra i più possenti paesaggi e marine del XIX secolo. Raffrontate alle forre rocciose dei fiumi di Courbet, le tele di Corot appaiono inconsistenti, e così quelle di Monet. Ma spesso, specialmente nelle opere tarde in cui compaiono cervi e caprioli, l'immagine risulta compromessa dall'eccessiva facilità d'esecuzione e dal cattivo gusto. Non abbastanza compromessa, tuttavia, da mancare il successo: sono proprio le meno valide tra le composizioni dell'artista, infatti, ad aver raggiunto la celebrità grazie alle numerose riproduzioni. Courbet rimane l'interessante e raro caso di grande artista dotato di cattivo gusto. Come alcuni nudi, anche certi suoi paesaggi appaiono dipinti per suscitare facili emozioni. Egli non riusciva a capire perché Daumier, che sentiva fratello nella rivolta, scegliesse di restare nell'ombra. Quando Daumier, nel 1870, rifiutò la Legion d'onore, Courbet lo abbracciò felice, disapprovando tuttavia che quel rifiuto non fosse avvenuto con éclat. Courbet sapeva far tutto con éclat: quello stesso éclat che George Gilbert Scott, pur nello stile più noioso e rispettabile che gli era proprio, aveva conferito alla stazione di San Pancrazio. A quanto riferiva Sainte-Beuve nel 1862, Courbet aveva in animo di «trasformare le grandi stazioni ferroviarie in nuovi templi della pittura, ricoprendone le vaste pareti con migliaia di temi... pittoreschi, morali, ispirati all'industria...; in altre parole, i santi e i miracoli della società moderna».
Nessuno di quei sogni si realizzò, e non possediamo dipinti di Courbet che celebrino l'industria e il commercio. Più in generale possiamo affermare che la rivoluzione industriale e l'epoca delle strade ferrate non lasciarono che una lieve traccia sulla pittura contemporanea. I fabbri di Wright of Derby sono figure caravaggesche in composizioni a forte luce artificiale. Pioggia, vapore e velocità (1844) di Turner è uno studio atmosferico, non sociale. Lo stesso dicasi per Il laminatoio di Karl Blechen (1798-1840), uno schizzo impressionistico, e per La ferrovia Berlino-Potsdam (1847) di Adolf Menzel (1815-1905). Ma Menzel fu anche il primo pittore di merito che scelse come tema un interno di fabbrica. Il suo Laminatoio, una composizione di cm 150 per oltre 275, mostra un'atmosfera densa di vapori e di fumo sotto la vasta copertura in vetro e i lavoratori — per niente monumentalizzati — alle prese con la colata di metallo fuso e incandescente. Il quadro risale al 1875.
La carriera di Menzel è di vivo interesse dal nostro punto di vista. Notevolmente dotato, l'artista rivela l'influenza di Blechen nei suoi primi dipinti a tratto rapido, caratteristici di quel preimpressionismo tedesco cui corrisposero, in Inghilterra, Constable e Bonington: paesaggi nei dintorni di Berlino, un interno di una chiesa con il pastore sul pulpito, o ancora una stanza con le tendine bianche gonfiate dalla brezza e inondata dal sole. Contemporaneamente, tuttavia, Menzel lavorava anche a una serie di silografie destinate a illustrare la Geschichte Friedrichs des Grossen («Vita di Federico il grande») di Kugler: un lavoro cui si dedicò con un impegno grandissimo, raccogliendo tutte le possibili notizie circa i molteplici particolari della vita prussiana nel Settecento. Le incisioni, estremamente precise e accurate, ebbero tanto successo da spingere l'artista a eseguire alcune composizioni a olio ispirate alla vita del sovrano. La prima di queste porta la data del 1850. Realismo e storicismo, queste costanti dell'Ottocento, vi appaiono attuati con massimo rigore. La tecnica pittorica ricorda quella delle scene galanti d'ispirazione rococò eseguite da Meissonnier, una tecnica che Menzel riprenderà negli anni tardi per composizioni a molte figure di soggetto contemporaneo. La cena dopo il ballo del 1878 e Piazza delle erbe a Verona del 1884 sono veri tours de force, densi di particolari osservati minuziosamente e diligentemente resi, ma sempre piacevoli perché privi di pedanteria.
Il luminismo del suo stile, che affonda le radici nell'iniziale impressionismo, distingue Menzel dal pittore inglese che più gli è affine, William Powell Frith (1819-1909). Ramsgate Sands del 1854, La giornata del Derby del 1858 e La stagione di Paddington del 1862 diedero a quest'ultimo una notorietà europea, tanto che al proprio nome, sul frontespizio dell'autobiografia, egli poteva far seguire questi titoli: «Cavaliere della Legion d'onore, Membro della Reale accademia del Belgio, Membro delle Accademie di Stoccolma, Vienna e Anversa.»
Le onorificenze concesse in Belgio godevano allora di particolare prestigio, perché Anversa era divenuta il centro dell'arte accademica d'Europa. Fu là, ad opera di Wappers (1803-74), Gallait (1810-87) e Keyser (1813-87), che venne elaborata quella sorta di pittura storica melodrammatica che andò sostituendo, dopo il 1830, l'ormai anemica, anche se nobile, arte neoclassica del disegno e dell'affresco. I belgi — e il francese Paul Delaroche (1797-1856) — appaiono come altrettanti Delacroix, ma di genio assai più modesto e senza il suo ardore.
Desiderando divenire pittore di storia, Ford Madox Brown (1821-93) si recò ad Anversa per studiare sotto la guida di Wappers. Dopo un breve soggiorno a Parigi si stabilì a Roma dove risentì della lezione di Overbeck, il superstite Nestore dei romantici tedeschi dell'inizio del secolo. Il fatto è documentato dalla composizione Chaucer alla corte di Edoardo III (1845-51), che risulta rigorosamente preraffaellita sotto il profilo stilistico, e per la sagomatura gotica del supporto, e per le figure a tonalità brillanti ed abbigliate con costumi trecenteschi, benché eseguita alcuni mesi prima della costituzione della confraternita. I fondatori di quest'ultima, in particolare Rossetti, William Holman Hunt e Millais, erano tutti più giovani di Brown, di cui Rossetti divenne allievo per breve tempo nel fatidico inverno del 1847-48. Le finalità della confraternita sono definite nel giornale «The germ», che ebbe breve vita: vi si leggono i principi di una dottrina che sotto certi aspetti, tranne uno, appare una mera trasposizione di quella dei romantici tedeschi. «Senza puro cuore non potremo compiere nulla di degno», scrive Frederick George Stephens. E ancora: «Eccesso d'azione, ... falso sentire, sensualità, povertà inventiva» sono rigorosamente da evitare. Occorre tendere «a un'intima adesione alla semplicità della natura» e attingere direttamente a « quelle opere, in numero relativamente piccolo, che l'arte ha già creato secondo tale spirito»: da ricercare queste ultime, nella pittura italiana anteriore a Raffaello e anche, se non prevalentemente, nei Paesi bassi e nella Germania di Memling e di Dürer. Questi i principi che informano i disegni e i dipinti, di un fascino sottile nella loro umiltà e secchezza, eseguiti a partire dal 1848 da Holman Hunt, Millais e Rossetti. Sono opere che sembrano porsi agli antipodi rispetto a quelle eseguite negli stessi anni da Courbet, Millet e Daumier: e tuttavia recano anch'esse il segno distintivo della metà del secolo. La verità ne è la parola d'ordine, ma una verità intesa in modo diverso dai «nazareni». «La verità esige che l'autore della pittura di storia conosca perfettamente il carattere dei tempi e i costumi dei personaggi che si accinge a rappresentare... a questo fine consulti gli esperti per gli abiti... l'architettura, la vegetazione o il paesaggio, gli accessori.» Menzel avrebbe sottoscritto questi precetti, definiti in realtà da Ford Madox Brown.
Brown, maggiore per età degli altri membri della confraternita, di cui ufficialmente non fece mai parte, rimase fedele ai canoni teorizzati in «The germ» sino alla fine, dipingesse Wyclif o Cordelia o uno di quei suoi paesaggi di un verde intenso, osservati meticolosamente e resi con una pennellata sottile, minuta. Il suo contributo più originale s'identifica con uno dei precetti di «The germ» (contenuto in un articolo di John L. Tupper), secondo cui gli artisti, al fine di trovare soggetti degni, non devono rivolgersi soltanto al passato, ma anche alle «grandi lezioni di pietà, verità, carità, nobiltà e coraggio» del nostro tempo. Gli eroi di oggi devono figurare nella pittura d'oggi. Se è vero che si deve odiare Nerone, non è meno vero che si deve odiare «l'oppressore e sfruttatore dei lavoratori». Parole che Courbet avrebbe condiviso: ma quanto diversi i suoi eroi contemporanei, ad esempio gli Spaccapietre, dallo Spaccapietre che John Brett eseguì sette anni più tardi: un bel giovane robusto in un paesaggio assolato e gremito di particolari. Ford Madox Brown iniziò nel 1852 a dipingere Ultimo sguardo all'Inghilterra, raffigurante la partenza degli emigranti per l'Australia, e nello stesso anno compì il Lavoro. Tra le sue ultime opere figurano John Dalton che scopre il metano e Crabtree che scopre il passaggio di Venere. Il Lavoro costituisce il più importante documento di tutta la pittura europea del tempo sulla riforma sociale. Sarebbe troppo lungo descriverne qui i contenuti e il valore di attitudini e gesti delle quasi venti figure che lo compongono. Nessuno dopo Hogarth aveva più tentato di assommare nello spazio relativamente breve di una tela tanti significati. La scena è ambientata a Hampstead, che è fedelmente riprodotta. Immediatamente riconoscibili sono i ritratti di Carlyle e Frederick Denison Maurice, che rappresentano il lavoro intellettuale, mentre gli sterratori raffigurano il lavoro manuale e un lacero venditore di fiori rappresenta coloro, che non impararono mai a lavorare. Vi sono poi i bambini derelitti dei quartieri poveri, coperti di stracci, la giovane signora sfaccendata e quella bene intenzionata che distribuisce opuscoli dal titolo Il rifugio del manovale o Bevande per anime assetate. Gli sterratori preferiscono la birra e ne hanno diritto. Altre scritte su manifesti ricordano al lettore — o meglio, allo spettatore — la Scuola per i lavoratori (fondata da Maurice nel 1854 e dove anche Rossetti insegnò per qualche tempo) e la Casa dei fanciulli in Euston road.
Si tratta indubbiamente di un tema letterario apprezzabile appieno soltanto mediante una guida o una chiave. Ma lo stesso potrebbe dirsi per l'Atelier di Courbet o per La cena dopo il ballo di Menzel. I preraffaelliti si opposero strenuamente alla teatrale superficialità della pittura di genere, i cui temi tratti indifferentemente dalla letteratura o dal regno della fantasia godettero di tanta popolarità in epoca vittoriana; quei dipinti che Dickens descriveva così in Bleak house («Casa desolata»): «Un terrazzo in pietra (con fenditure), una gondola in lontananza, una perfetta tenuta da doge di Venezia, un abito di seta bianca riccamente ricamato con il profilo di Miss Jogg, una scimitarra con superba montatura in oro e gioielli all'impugnatura, un elaborato costume moresco (assai raro), e Otello.» I preraffaelliti protestavano anche se l'esecuzione era ineccepibile; «lurido sottobosco», scriveva Brown nel maggio del 1851: i loro Re Lear e Dante e la Lady of Shalott univano all'accuratezza della resa un impegno e un fervore nuovi (almeno nei primi anni del movimento).
Come sempre accade ai gruppi di giovani artisti, la confraternita preraffaellita si dissolse dopo pochi anni e i fondatori proseguirono in direzioni opposte. William Holman Hunt (1827-1910) rimase fedele ai precetti della scuola: per dipingere Il capro espiatorio volle recarsi in Palestina nel 1854, in modo che il suo mar Morto fosse un vero mar Morto — un ben aberrante concetto di realismo! — e parimenti per Giornata di maggio ad Oxford si obbligò, pur essendo ormai in età avanzata, a salire su Magdalen tower ogni mattino alle cinque. Le immagini risultano tanto vicine al vero sino ai minimi particolari e così nitida ne è la messa a fuoco che i dipinti finiscono per apparire affatto convincenti sul piano realistico. Non fosse per gli orribili e assurdi colori senz'ombre, dai rossi violenti ai verdi assenzio, potrebbero ricordare le distese di ciottoli o i primi piani di volti senza ritocco della moderna fotografia. La tavolozza di Dante Gabriele Rossetti (1828-82) appare più calda e ricca nelle sue ultime opere, ma non meno repulsiva. La languida sensualità delle sue figure non è in alcun modo coerente ai principi di «The germ», anche se del tutto addomesticata a paragone di quella sanguigna di Courbet. Pur tuttavia fu necessario il filtro purificatore degli azzurri freddi e dei grigi di Burne-Jones perché acquistasse vasta popolarità: ma l'arte più raffinata di Burne-Jones appartiene all'ultima fase dell'epoca vittoriana.
Rimane infine John Everett Millais (1829-1896), che da membro della confraternita preraffaellita divenne presidente della Royal academy, dipingendo nei suoi ultimi anni Passaggio di nord-ovest e Bolle di sapone anziché Bottega del falegname e Ofelia. Il suo rimane l'esempio più singolare in Inghilterra di conflitto fra il mondo dell'arte impegnata e il successo sociale. Analogo è il caso di George Frederick Watts (1817-1904), che esordì con un vigoroso stile venezianeggiante, robusto e caldo, per finire con immense e vacue «macchine» illustrative quali il celebre Mammon, o Amore e vita e Tempo, morte e giudizio.
In epoca vittoriana i titoli contribuivano largamente al successo di un'opera. Se l'uomo della strada trovava più facile distinguere il carattere rinascimentale o gotico di una facciata piuttosto che la sapienza delle proporzioni, allo stesso modo preferiva guardare un dipinto con due cani, soprattutto se il titolo era High Life e Low Life, o l'immagine di un cervo intitolata Il re della valle, piuttosto che contemplare della pittura pura e semplice. Ho scelto a caso questi due titoli dalla produzione di Edwin Henry Landseer (1802-73); ma potrebbero ricordare anche i suoi Alessandro e Diogene, Insigne membro dell'umana società (un cane San Bernardo) e Dignità e impudenza.
In Francia, invece, raramente un dipinto di successo, il dipinto dell'anno, era d'ispirazione letteraria. Se il pittore inglese per conquistare il favore del pubblico faceva appello al sentimento, l'artista francese doveva far leva sui sensi. Pittori come Cabanel (1823-89) e Bouguereau (1825-1905) giunsero a ripetere per anni e anni i loro seducenti nudi. La Nascita di Venere di Cabanel, con la dea che voluttuosamente sorge da un mare di cartone, fu esposta al Salon del 1863 e fu subito acquistata da Napoleone III, così come la regina Vittoria aveva acquistato Ramsgate Sands di Frith e investito del titolo di cavaliere Landseer.
Lo stesso anno in cui la Venere di Cabanel suscitava scalpore al Salon, Manet dipingeva la sua Olympia, che avrebbe fatto scandalo al Salon del 1865. Il contrasto fra l'arte ben accetta al pubblico e la pittura di Manet e dei suoi amici, che poco più tardi si sarebbero raccolti intorno a lui sotto la bandiera dell'impressionismo, appare anche più stridente che intorno alla metà del secolo. «Una pressoché infantile ignoranza dei primi elementi del disegno», «una consapevole esibizione di inconcepibile volgarità», « questa Olympia, una sorta di gorilla femmina», «quest'odalisca gialla e obesa», «un'arte scesa così in basso non merita neppure che la si condanni»: questi alcuni dei commenti con cui la stampa accolse l'Olympia di Manet, quando fu esposta nel 1865.
Manet, che nacque nel 1832, rientra nel periodo qui preso in esame solamente per le opere del suo esordio, mentre gli impressionisti ne sono esclusi. Nel 1870 Degas non aveva che trentasei anni, e trenta Monet e Renoir. L'arte dell'impressionismo, sottile, fuggevole, estremamente sensibile e superficiale — nel senso letterario della parola, che indica un'attenzione ai fenomeni quali appaiono esclusivamente ai nostri occhi — appartiene decisamente all'ultimo Ottocento.
(fonte: Storia del mondo moderno - vol. X - Cambridge University Press / Garzanti
© 1967 by The Syndics of the Cambridge Univeristy press
© Aldo Garzanti Editore s.a.s. 1970)