Redon, Odilon
Odilon Redon, contemporaneo degli impressionisti, fu un indipendente la cui arte, intensamente personale, sviluppò le proprie ricerche in disparte rispetto ai movimenti del suo tempo. La sua opera, a lungo incompresa, s’impose soltanto dopo il 1890. È ormai considerato uno dei personaggi piú ricchi e complessi del sec. XIX, creatore di forme e armonie nuove nel disegno, nella stampa, nella pittura e nell’arte decorativa, grande scrittore nel Diario e nelle Notes, raccolte nel 1922 col titolo A soi-même. Proveniva da una famiglia borghese di Bordeaux; era nato poco dopo il ritorno nella città del padre Bertrand, che era emigrato a New Orleans e vi si era sposato; la sua ispirazione deve molto alle prime impressioni di un’infanzia fragile, lasciata a se stessa nella tenuta di famiglia di Peyrelebade, al confine tra il Médoc e le Landes. Fino al 1899 l’artista tornò ogni anno «a specchiarsi nelle proprie fonti» nel luogo della sua infanzia fattosi luogo della sua creatività. Venne iniziato al disegno da S. Gorin, allievo di Isabey, uno degli animatori della Société des amis des arts, fondata a Bordeaux nel 1851; gli insegnò ad ammirare nei salons gli invii di Corot e di Delacroix e, piú tardi, le prime opere del giovane Moreau. L’adolescente esitò sulla propria vocazione, abbandonò studi di architettura e scultura, passò al corso di Gérôme, ove si scontrò con l’incomprensione del docente. Fu decisivo l’incontro, verso il 1863, con R. Bresdin a Bordeaux: con lui si iniziò alle tecniche dell’incisione e della litografia, ma soprattutto la personalità di Bresdin, i suoi discorsi (che egli raccolse) e le risonanze che la sua opera risvegliò in lui lo orientarono definitivamente verso un’arte libera, lontana sia dal naturalismo che dalle convenzioni ufficiali, e che esprime, facendo appello alle risorse del pensiero e del sogno, la visione soggettiva dell’artista e la sua interpretazione della realtà. Le acqueforti che Redon espose ai salons di Bordeaux, i disegni a grafite e i primi carboncini, come Dante e Virgilio (1865: Almen, Olanda, coll. sig.ra Bonger) dimostrano l’influsso di Bresdin e s’inscrivono entro una tradizione romantica. Nel contempo Redon definiva la sua posizione rispetto all’arte contemporanea nel suo resoconto sul Salon del 1868 e nello studio su Bresdin (1869), pubblicati su «La Gironde». La guerra del 1870, cui partecipò, segnò una data nella sua evoluzione: «quella della mia coscienza», scriverà piú tardi. Ebbe allora inizio la fase piú feconda dei Neri: fu lui stesso a dare questo titolo al complesso di carboncini e litografie che costituiscono la parte essenziale della sua produzione fino al 1895. La scelta del carboncino su carta colorata, tecnica degli ultimi studi di Corot, sottolinea la volontà dell’artista di superare il romanticismo delle prime prove, verso una forma piú suggestiva di espressione, lasciando posto all’indeterminato, all’ambiguo: «L’arte suggestiva non può dar nulla senza ricorrere unicamente ai giochi misteriosi delle ombre e al ritmo delle linee mentalmente concepite». Usando dapprima la litografia per riprodurre i carboncini, giunse a una notevole padronanza degli effetti propri di questa tecnica del bianco e nero (181 pezzi, catalogati da Mellerio nel 1913); dal 1879 al 1899, accanto a lavori isolati come il celebre Pegaso prigioniero (1889), pubblicò tredici serie litografiche; le piú significative sono Nel sogno (1879), le Origini (1883), Omaggio a Goya (1885), le tre serie della Tentazione di sant’Antonio (1888,1889 e 1896), e l’Apocalisse (1899). Conobbe sicuramente le opere dei grandi visionari, da Goya e Moreau, e certo scoprì, grazie al microscopio del botanico Clavaud, i misteri dell’infinitamente piccolo, ma la genesi dei Neri si colloca su un altro piano: essi appaiono il frutto di un’avventura spirituale che condusse l’artista, al termine del suo viaggio notturno, fino ai confini tra coscienza e inconscio. Il suo merito è di aver saputo porre «la logica del visibile al servizio dell’invisibile » ed esprimere in termini visivi i suoi temi ossessivi: assillo delle origini, trasmutazioni segrete che modificano il volto umano e dotano il mostro di vita morale, paura intellettuale, vertigine dell’assoluto. Se tali opere fecero scandalo alle mostre di la «Vie moderne» (1881) e del «Gaulois» (1882), presto Redon ebbe i propri fedeli: E. Hennequin (articolo su «la Renaissance», marzo 1882), Huysmans, che gli rende omaggio in À rebours (1884), Mallarmé e, tra i suoi primi sostenitori, R. de Domecy e l’olandese A. Bonger. Definiva mirabilmente la genesi delle sue opere visionarie: «Il mio procedimento piú fecondo, quello piú necessario alla mia espansione è stato, l’ho detto spesso, copiare direttamente la realtà riproducendo attentamente oggetti della natura esteriore in ciò che essa ha di piú minuto, di piú particolare e accidentale. Dopo lo sforzo per copiare minuziosamente un sasso, un filo d’erba, una mano, un profilo o qualsiasi altra cosa della vita vivente o inorganica, sento giungere in me uno stato di ebollizione mentale; allora ho bisogno di creare, di lasciarmi andare alla rappresentazione dell’immaginario». Si nota un’evoluzione nei Neri, dai carboncini rapidi e patetici eseguiti prima del 1885, come la Testa di Orfeo sulle acque (Otterlo, Kröller-Müller), la Finestra (New York, MoMA), il Ragno (Parigi, Louvre), l’Armatura (1891: New York, Metropolitan Museum of Art) o la Follia (ivi), fino alle opere piú segrete e interiorizzate degli anni Novanta, come Chimera (Louvre); i potenti contrasti d’ombre e luci che drammatizzano il motivo sono allora sostituiti dall’intento di modulazione e d’arabesco: il Papavero nero (Almen, coll. sig.ra Bonger), il Sonno (Louvre), Profilo di luce (Parigi, Petit Plais e coll. Cl. Roger Marx). Con il distendersi della sua ispirazione l’artista si indusse a cercare nella pittura e nel pastello nuovi mezzi espressivi. Di fatto non aveva mai smesso di dipingere, sia copie dai maestri (Caccia al leone da Delacroix: Bordeaux, Musée des Beaux Arts), ritratti (Autoritratto, 1867: Parigi, coll. A. Redon), studi di fiori (Karlsruhe, Kunsthaus; Almen, coll. sig.ra Bonger) o paesaggi eseguiti a Peyrelebade (la Casa di Peyrelebade, la Nuvola bianca: Parigi, coll. A. Redon) o in Bretagna (le Rocce: Parigi, ex coll. V. Bloch; Porto bretone: Parigi, coll. A Redon). Ma tali opere, di rara sensibilità, intitolate Studi per l’autore e conservate nel suo studio, si collocavano in margine alla sua attività fondamentale. Dal 1890 tentò una trasposizione cromatica dei temi dei Neri nei dipinti (gli Occhi chiusi, 1890: Louvre) e nei carboncini rilevati a pastello (Vecchio Angelo: Parigi, Petit Palais). Nel 1900 il colore vince definitivamente nell’opera del sessantenne pittore: «Ho cercato di fare un carboncino come un tempo: impossibile, ho rotto col carbone», scriveva nel 1902. A questo periodo risale il notevole insieme di ritratti a pastello: Madame Arthur Fontaine (1901: New York, Metropolitan Museum of Art); Jeanne Chaiane (1903: Basilea, Kunsthaus); Violette Heymann (Museo di Cleveland), nonché le variazioni intensamente colorate su temi mitologici: Nascita di Venere (pastello: Parigi, Petit Palais); Pegaso (dipinto: Otterlo, Kröller-Müller); o religiosi: Sacro Cuore, il Budda (pastelli: Louvre). L’opera colorata è posta sotto il segno dei fiori; la qualità della trasposizione si unisce alla bellezza dell’esecuzione per dotare di un fascino eccezionale questi «fiori venuti alla confluenza tra due fiumi, quello della rappresentazione e quello del ricordo», secondo la definizione dello stesso Redon (Louvre, Petit Palais; coll. sig.ra Bonger; prof. Hahnloser; A. Redon). Isolato tra i suoi contemporanei, Redon era divenuto la guida delle generazioni successive. Sotto la sua presidenza venne fondata nel 1884 la Société des artistes indépendants. Emile Bernard e Gauguin riconoscevano il loro debito nei suoi confronti. I Nabis, Bonnard, Vuillard, Denis, erano suoi amici: «Era l’ideale della giovane generazione simbolista, il nostro Mallarmé», scriverà Denis. Dopo la mostra del 1894 presso Durand-Ruel, nuovi appassionati s’interessarono delle sue opere, tra cui A. Fontaine, G. Frizeau, G. Fayet; alcune commissioni orientarono l’artista verso l’arte decorativa (castello di Domecy, Yonne, 1900-1903; dimora di Mme E. Chausson, Parigi, 1901- 902; abbazia di Fontfroide, presso Narbona, 1910-1914). Dal 1905 il tema del Carro di Apollo appare come ultima espressione della sua arte suggestiva e simbolica (Parigi, Petit Palais; Museo di Bordeaux); nell’ambito del disegno la sua ultima tecnica fu l’acquerello.
(fonte: Storia dell’arte Einaudi)