Fontanesi, Antonio
Antonio Fontanesi, formatosi alla scuola comunale di belle arti di Reggio (1832) con Prospero Minghetti, abbandona nel 1847 la sua città natale per recarsi a Torino e Milano, spinto sia dagli ideali patriottici che dalla ricerca di stimoli culturali.
Una delle prime opere, oltre alle cinque tele per il Caffè degli Svizzeri di Reggio del ’45-47, è una Veduta di Massa (1843), che, pur mantenendo saldi i principî della veduta accademica, contiene in sé fermenti di ricerca sul vero.
Dopo i moti del ’48 è costretto a rifugiarsi a Lugano e dal ’50 si stabilisce a Ginevra dopo vari viaggi a Lucerna, Berna, Basilea e la Foresta Nera da cui trae spunti per schizzi e disegni. Sono questi gli anni in cui matura la sua formazione, a contatto con le diverse anime della pittura di paesaggio europea.
A Ginevra, dove risiede fino al ’65, intervallando la permanenza con soggiorni in Italia, nella Savoia e a Parigi, conosce tra gli altri il pittore A. Calame e R. Toepffer, e tramite il mercante d’arte V. Brachard entra in contatto con la scuola del naturalismo francese del ’30, esperienza approfondita poi all’esposizione di Parigi del ’55.
A questi anni (’52-53) di lavoro e di studio sul paesaggio, risalgono molti disegni a carbone (fusains), determinati da una forte sensibilità chiaroscurale, in cui confluiscono le influenze sia dei paesaggisti svizzeri che dei pittori di Barbizon.
Un superamento del vedutismo romantico si riscontra invece nelle opere pittoriche del ’50 (Il sentiero nel castagneto, 1850-55: Torino, Galleria d'Arte Moderna), in cui Fontanesi abbandona le accentuazioni drammatiche di Calame, lavorando su temi semplici, dal tono dimesso anche nel colore, basato su accordi equilibrati di poche tinte, dando priorità alla ricerca diretta sul motivo dal vero.
L’amicizia con Ravier, col quale dipinge (1858), lo porta a confrontarsi con i moduli paesaggistici di Daubigny e Corot; riflessione da cui dipende la tipologia compositiva «all’olandese» dell’immagine, strutturata dalla predominante visiva della bassa linea dell’orizzonte, dividendo il campo pittorico, nel contrasto dell’elemento scuro della terra e la trasparenza atmosferica del cielo.
Il debito accostamento a Daubigny, nella visione mattutina, resa da un impasto di colore diluito e dato per velature, del dipinto esposto alla Promotrice di Torino del ’61, Il mattino (1860: Genova, Galleria d'Arte Moderna), e la scelta di motivi di chiara dipendenza corotiana (La quiete, 1860: Torino, Galleria d'Arte Moderna), superano però il pedissequo aggiornamento alle novità della pittura d’oltralpe, nella singolare interpretazione di immagini di natura spoglia e desolata, enucleando, nel corso degli anni, una poetica e fantastica immagine della luce, nucleo ideale e naturale insieme che smaterializza la corposità pittorica dei terreni bruni in primo piano, graduandosi in un indefinito lume avvolgente.
Nell’opera cardine di questi anni, Il mulino (1856: ivi), il gioco di riflessi e sfumature connota la concreta e semplice immagine naturale, di un intimo lirismo, che interpreta i toni luminosi del paesaggio.
L’effetto di luce è sempre basato su appunti dal vero, ed elaborato in ripensamenti continui di uno stesso motivo, riprodotto con diverse tecniche (litografie del ’50, per esempio Mattino; Abbeveraggio del 1849; eliografie ed acqueforti degli anni ’60-70); la qualità ed intensità dei valori tonali è espressa soprattutto dalle acqueforti, nella vasta gamma di gradazioni dal bianco al nero (La pesca del ’64; Al pascolo degli anni ’60 ca.; Sole di primavera, 1875 ca.: Torino, Galleria d'Arte Moderna), ed in opere di grande sensibilità chiaroscurale come La stalla (1873 ca.: ivi).
Dagli anni ’60 in poi il suo registro interpretativo evolve nell’isolato percorso di sintesi tra «natura » ed «idea», unificando «paesaggio puro» e romanticismo dei temi, carichi di istanze simboliche (vespro, solitudine, presenze di alberi isolati sull’orizzonte paesaggi in controluce, accensioni di riflessi sull’acqua al tramonto).
Un itinerario originale che dallo studio e dal rapporto diretto con la natura approda a quella «poesia del vero» (così definita da lui stesso), che trova catarsi lirica nella rappresentazione dell’indefinito naturale, interpretato dalla carica evocativa che lo accosta al Piccio e a Gigante, del linguaggio pittorico, equilibrato dalla compostezza e gravità monumentale del registro elegiaco (Idillio, 1865 ca.: Torino, Galleria d'Arte Moderna; Il guado, 1861: coll. Stramezzi; Altacomba, ricordo della fontana delle meraviglie, 1864: coll. priv.).
Il medium compositivo calibra le fantasie di forme e linee del paesaggio svaporanti all’orizzonte, nell’inquadramento scenografico delle scure quinte arboree in primo piano (Donna alla sorgente, 1865: Torino, Galleria d'Arte Moderna); e lo stesso pittoricismo della materia-colore, fatto di spessori bruni, raschiature, pennellate incrociate e gradazioni diluite (esempio bozzetti, Radura, 1860-65: ivi) espressivo della personale emozione visiva della luce e del vitalismo vibrante della natura, delle opere Mattino d’ottobre (1862: ivi), Il crepuscolo (1862: Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna), Novembre (1864: Torino, Galleria d'Arte Moderna), è contenuto dal rigore impaginativo del riferimento classico (Lorrain, Ruysdael, Dughet).
L’immagine, quindi, superando l’indagine immediatamente percettiva, attinge forza dall’interpretazione dell’energia vitale della natura, in cui si specchia la tensione introspettiva dell’artista; ma l’elemento soggettivo e romantico è misurato sempre sul dato naturale, semplificato nelle linee essenziali, come nell’astrazione di terra e cielo del dipinto Sull’altipiano (1865: Como, coll. priv.), dando risalto al colloquio lirico e solitario tra uomo e natura (Pastorella solitaria 1860 ca.: Torino, Galleria d'Arte Moderna).
L’insistenza del riferimento concreto al dato percepito, che gli valse il consenso del gruppo fiorentino del Caffè Michelangelo (L’abbeveraggio, 1867: Bologna, Pinacoteca Nazionale; recensito positivamente da D. Martelli), è punto di partenza per i giovani pittori piemontesi alla ricerca di una soluzione dell’opposizione tra «paesaggio ideale» e «verità» (Avondo, Delleani, Bertea, Rayper, Camerana); anche se la poetica dell’artista rimane difficilmente collocabile nel panorama pittorico dell’Ottocento italiano.
L’impossibile convergenza di visione con macchiaioli e veristi emerge dal disaccordo nato sulla proposta dell’inserimento della cattedra di paesaggio nell’insegnamento accademico, cattedra che Fontanesi otterrà tra le polemiche, nel 1869, all’Albertina di Torino (verrà eliminata due anni dopo la sua morte).
Nel 1866 Fontanesi è a Londra, dove si tratterrà un anno, aprendo un nuovo momento di riflessione a contatto con la pittura di Rembrandt, Constable e Turner; al periodo londinese appartengono alcune vedute (Strada con arco; Ingresso nella cattedrale di San Paolo) ottenute con la tecnica del cliché-verre, conosciuta tramite gli amici lionesi.
Tornato in Italia, a Firenze nel 1867, elabora l’esperienza londinese in opere che raggiungono piena maturità espressiva nell’intensa sintesi di materia, luce e colore che si sprigiona nei quattro ovali commissionatigli da C. Banfi, dipinti nel 1867 (Crepuscolo sul Mugnone; Stagno lungo il Mugnone; Fontana nei pressi di Signa; Ricordo di viaggio, tutti in coll. priv. a Torino) e nel dorato luminismo di Tramonto sullo stagno (1869-1876: Torino, Galleria d'Arte Moderna).
L’intensità evocativa delle opere degli anni ’70 trasforma il motivo in una fantasia visiva dell’indefinito lucore delle atmosfere cariche di attesa di Aprile (1873: ivi) e di Bufera imminente (1874: ivi), fantasie liriche (Solitudine, 1874: Reggio Emilia, Museo civico; Desolazione, 1870 ca.: Torino, coll. priv.), rattenute nella cornice compositiva e nella sintassi classica dell’immagine, pur nel vivo ricordo dell’esperienza turneriana, nella libera sintesi di luce-colore di Bassa Marea (1880: Torino coll. priv.).
Il senso dell’indefinito e dell’informe naturale (Novembre, 1875 ca.) della sua rappresentazione e il linguaggio pittorico che sfalda e disgrega l’immagine, lo pongono lontano tanto dalle posizioni veriste, quanto dal paesaggio accademico o vietamente romantico. E non favoriscono riconoscimenti negli incontri ufficiali a cui il pittore è sempre presente (Promotrici di Torino dal ’52, esposizioni di Firenze Vienna nel ’73, Salon parigino nel ’61), sollevando critiche. Come accade nel ’62, nell’Album della Promotrice, dove E. Balbiano scrive: «Fo voti che il suo potente ingegno rimanga unico, perché non a tutti sarebbe dato di poter far bene adoperando come fa lui talvolta, non i pennelli, ma la scopa».
È forse motivata da simili chiusure la scelta di accettare la proposta del governo di recarsi a Tokyo, nel 1876, per ricoprire la carica di insegnante nella scuola di belle arti, interna al collegio di ingegneria. Qui contribuisce alla formazione di un gruppo di pittori del periodo Meiji, definiti di «stile occidentale ».
A causa del suo precario stato di salute è costretto però a tornare a Torino nel 1878 riprendendo l’insegnamento all’accademia, contornato da un gruppo di allievi (Ghesio di Volpegno, Bussolino, Stratta, Camerana e Marco Calderini, autore di una biografia sul pittore, edita nel 1901, di valore documentario), con i quali dipinge nei dintorni della campagna torinese, a Rosta, San Mauro, Mirafiori.
In questi ultimi anni, la visione di Fontanesi si fa piú fosca, accentuando l’informe e il materico della sua pittura, procedendo per spessori di colore rosso-violacei, bruni, intense luminescenze e biancori lunari; tra queste opere, espressive di una libertà quasi visionaria, Tramonto infuocato sulla palude (1880: Torino, Galleria d'Arte Moderna), Stagno luminoso (1880: ivi), Tramonto sul Po a San Mauro (1880-81: ivi).
Dell’80 è il monumentale dipinto Le nubi (ivi), al quale il pittore lavora a lungo insoddisfatto, prima di mostrarlo all’esposizione di Torino, in cui il dipinto non raccoglie il successo sperato. L’opera, di grande rigore stilistico, è l’immagine dell’infinito orizzonte in cui sfuma ogni forma, e sintetizza il carattere metafisico della riflessione sulla natura e la pregnanza astraente del suo luminismo, visione non scevra di reminiscenze orientali, e si pone a conclusione della singolare interpretazione e visione naturale del pittore, ben espressa dalle sue parole: «Il vero, il finito, altro non sono che l’infinito» (da una lettera all’allievo Stratta).
Gran parte delle opere dell’artista (dipinti, bozzetti, incisioni, disegni) sono raccolte alla Galleria d'Arte Moderna di Torino (lascito Camerana del 1905).
(fonte: Serenella Rolfi in Storia dell’arte Einaudi