Ferroni, Egisto

Egisto Ferroni
Cognome: 
Ferroni
Nome: 
Egisto
Luogo di nascita: 
Lastra a Signa
Data di nascita: 
1835
Luogo di morte: 
Firenze
Data di morte: 
1912
Nazionalità: 
Italiana
Biografia: 

 

Egisto Ferroni nacque a Lastra a Signa (Firenze) il 14 dicembre 1835 da Egiziano e da Teresa Soldaini. Primogenito di otto figli, fu avviato all'arte del padre, maestro scalpellino, che lo voleva ornatista e che lo inviò prima a Empoli e poi a Firenze ad apprendere il mestiere presso gli artigiani locali. Nel 1851 il Ferroni entrò all'Accademia di belle arti di Firenze dove studiò, sino al 1857, disegno, figura e prospettiva, riportando "premi nel disegno ornato, nel disegno dal gesso e nell'accademia disegnata" (Somarè, 1939. p. 25). Uscito dalla Accademia, soggiornò ancora qualche anno a Firenze frequentando E. Pollastrini e S. Ussi, che lo avviarono allo studio della composizione storico-aneddotica; alcuni suoi disegni e ritratti (La fidanzata del pittore, 1858 e Il nonno Bista, bozzetto, 1860: Firenze, coll. privata) documentano questo primo periodo giovanile rivelando, accanto all'impronta d'ispirazione neoclassica e ad alcuni spunti derivati da A. Ciseri, un deciso orientamento verso l'osservazione e la resa realistica. Nel 1862, stabilitosi a Lastra a Signa, dove nel frattempo aveva preso moglie (1860), il Ferroni dipinse il suo primo quadro storico, L'incontro di Carlo VIII con gli ambasciatori fiorentini a Ponte a Signa (conservato nel palazzo municipale). Il dipinto appare ancora legato ai canoni accademici, come lo sono i numerosi quadretti di genere, con figure in costume settecentesco, che gli vennero commissionati in quegli stessi anni dalla galleria Pisani di Firenze (Boito, 1873). Sebbene fosse sensibile alle istanze espresse a Firenze dal movimento macchiaiolo, il Ferroni non aderì al gruppo, del quale non condivideva le novità tecniche, ma, abbandonata la pittura accademica di soggetto storico, si dedicò al tema rurale ritraendo personaggi ed episodi della campagna toscana mediante un disegno incisivo dal forte risalto plastico. Nel 1863 espose alla Società promotrice di Firenze il Ritorno dalla fiera (1862: Firenze, coll. privata) che, insieme con altre opere di quegli anni (La visita, 1863: Firenze, Galleria d'arte moderna di palazzo Pitti), documenta come la sua pittura fosse definitivamente orientata all'espressione del vero. Alla Promotrice del 1868 presentò Le trecciaiole (1867: Londra, National Gallery), inaugurando una serie di composizioni più vaste e complesse. In contatto con alcuni esponenti del movimento macchiaiolo, tra i quali G. Fattori, O. Borrani, N. Cannicci, L. Gioli e, soprattutto, T. Signorini, il Ferroni, riservato e meticoloso, si mosse raramente dalla Toscana; nel 1878 fu a Parigi in occasione dell'Esposizione universale dove espose i dipinti La boscaiola e Gita in barca (ubicazione ignota). A Parigi ebbe modo di conoscere i diversi orientamenti del naturalismo francese, e in particolare fu attratto dalla pittura di J. Bastien-Lepage. Nel 1878 si apre il decennio più fecondo della vita del pittore. Sono di questo periodo la maggior parte dei dipinti commissionati dal conte di Frassineto (L'infioccatura, 1877; Verso l'ovile, La barca, La caccia, Il ballo, del 1879; Il carro, 1881: Frassineto, coll. conte Frassineto); una serie di quadri idillici, spesso di piccolo formato, tra i quali si inseriscono, a volte, motivi puramente pittorici dalle delicate tonalità grigie (Ai campi, 1881 e Il boscaiolo, 1883: Firenze, Galleria d'arte moderna di palazzo Pitti; Il merciaio ambulante, 1882: Palermo, Galleria d'arte moderna; Torna il babbo, 1883: Roma, Galleria nazionale d'arte moderna); alcuni ritratti (La madre, 1873: Milano, Coll. privata) e numerosi studi e bozzetti. All'Esposizione nazionale di Torino del 1879 il Ferroni presentò Alla fonte (Firenze, Gall. d'arte mod. di pal. Pitti), che espose anche l'anno successivo alla Promotrice fiorentina, riscuotendo i consensi di D. Martelli, di Ferroni Martini e di A. Cecioni. In quegli stessi anni, con A. Tommasi, affittò uno studio a Firenze in via Milton, dove per qualche anno insegnò privatamente pittura. Membro della Società di belle arti e accademico d'onore dell'Accademia fiorentina del disegno dal 1882, nel 1889 il Ferroni prese parte all'Esposizione universale di Parigi presentando La madre e Il boscaiolo. Dal 1891 una crisi depressiva, dovuta alla morte del figlio Raffaele, rallentò il lavoro del Ferroni che diradò anche la partecipazione alle mostre. Presente nel 1897 alla Biennale di Venezia con Amori santi, nel 1906 a Roma espose Ritorno alla fonte alla Seconda mostra dell'Associazione degli artisti italiani. Fu autore di alcuni bozzetti e disegni per la fabbrica artistica di ceramiche Bellariva, diretta dal figlio Giuseppe, e modellò anche i rilievi raffiguranti la Vendemmia e la Mietitura per il salone del piroscafo "Vittorio Emanuele". Nel 1908 si stabilì a Firenze, a casa del figlio Arrigo, dove morì il 25 maggio 1912.


Fonti e Bibliografia:
  • N. Tarchiani, Marginalia: Egisto Ferroni, in Marzocco, 2 giugno 1912, e in L'Illustrazione italiana, 2 giugno 1912, p. 543.
  • C. Boito, La pittura nuova in Firenze, in Nuova Antologia, marzo-aprile 1873, p. 488.
  • A. Cecioni, Sul quadro di Egisto Ferroni, in Giornale artistico, 12 giugno 1874, n. 6.
  • L. Bellinzoni, L'Esposizione di Parigi: Ferroni e Moradei, in Il Popolo romano, 15 maggio 1878.
  • T. Signorini, L'arte che Firenze ha inviato a Parigi, in Lettere e arti, XV(1889), pp. 6-8.
  • P. Nomellini, in Mostra commemorativa di Egisto Ferroni (catalogo), Firenze 1936.
  • E. Somarè, L'opera di Egisto Ferroni, Milano 1939 (con bibliografia precedente).
  • J. Pelegatti - R. Tassi, I postmacchiaioli, Firenze 1962, pp. 5-12.
  • S. Furlotti Reberschak, Catalogo Bolaffi della pittura italiana dell'800, Torino 1980, p. 81 (per le mostre collettive, le aste più recenti e le collezioni private).
  • A. Del Guercio, La pittura dell’Ottocento, Torino 1982, pp. 88, 90.
  • E. Spalletti, in La pittura in Italia. L’Ottocento, Milano 1991, ad Indicem
  • S.Bietoletti, ibidem, p. 824.
  • L’arte italiana del Novecento, M. Pratesi - G. Uzzani, La Toscana, Venezia 1991, ad Indicem.
  • Enciclopedia Italiana, XV, p. 123.
  • U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XI, pp. 488.
  • Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani: dall’XI al XX secolo, vol. IV, pp. 419 s.

(fonte: Alexandra Andresen in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 47, 1997)

 


 

Il ciclo di Frassineto

Il silenzio di Ferroni

Accade, talvolta, che il momento della consacrazione ufficiale di un artista coincida, paradossalmente, con l’inizio del suo oblio. Negli anni compresi fra il 1927 e il 1939, la parabola pittorica di Egisto Ferroni (Lastra a Signa, 1835 - Firenze, 1912) raccoglieva gli ultimi bagliori della propria fama per poi spegnersi quasi improvvisamente. I tempi e le circostanze che determinarono il declino del pittore, la cui vicenda si svolse parallelamente al fenomeno della “macchia”, non sono, tuttavia, imputabili soltanto alla “damnatio memoriae che per ragioni ben complesse e note ha travolto la pittura toscana e che tuttora ristagna sopra queste personalità di snodo e difficilmente digeribili alle poetiche sofisticate dell’intero novecento” (1). Il fattore principale di questo particolare processo di rimozione va ricercato, in primis, nell’immagine che la critica degli anni del rappel à l’ordre ha saputo o voluto tramandarci di lui: quella cioè di una personalità volontariamente sottrattasi, per istintiva inclinazione, alle diatribe artistiche del proprio tempo, al solo scopo di ritirarsi nell’esilio rurale della sua terra d’origine, dove, pervicacemente, si sarebbe arroccato fin quasi ai suoi ultimi giorni. Alla luce del progressivo assestamento operato dalla critica intorno ai valori storico artistici dei testi figurativi del Naturalismo europeo, parrebbero finalmente giunti propizi i tempi per un pieno recupero della figura di Ferroni, ancor oggi difficilmente classificabile all’interno del variegato tessuto della pittura italiana dell’Ottocento. Primogenito di otto figli, Egisto Ferroni nasceva a Porto di Mezzo, piccolo borgo situato a mezza strada fra Firenze e Empoli, il 14 dicembre 1835. Secondo l’appassionato resoconto del figlio Arrigo, il ragazzo venne inizialmente spinto dal padre, Egiziano Ferroni, maestro scalpellino, a intraprendere la sua stessa attività. Mandato, in un primo momento, a scuola da alcune maestranze empolesi, il giovane fu successivamente allogato a Firenze presso la bottega di un “marmista ornatista assai stimato” (2). L’amore per la pittura, precocemente rivelatosi, doveva però ben presto convincere Egiziano ad iscrivere il figlio all’Accademia di Belle Arti, dove per sei anni, dal 1851 al 1857, seguì “le scuole di disegno, di figura, ornato, statua, prospettiva e pittura, riportando premi nel disegno ornato, nel disegno dal gesso e nell’Accademia disegnata” (3). La successiva frequentazione degli studi di Enrico Pollastrini, Antonio Ciseri, ma soprattutto di Stefano Ussi, dal 1861 docente presso l’Accademia, dovette lasciare una traccia profonda nel talentuoso discepolo. Proprio nel segno di Ussi, si consumò il debutto ufficiale del giovane Ferroni, che nel 1861 ottenne dal Municipio di Lastra a Signa l’incarico di eseguire una grande tela di soggetto storico: Carlo VIII incontra gli ambasciatori fiorentini presso Ponte a Signa. Ispirato ad un passo delle Istorie della città di Firenze di Jacopo Nardi, il dipinto illustrava il momento del confronto fra gli emissari politici del governo fiorentino e l’imperatore francese ormai in procinto d’entrare in città dopo la cacciata di Piero de’ Medici. Dei modi dell’Ussi, Ferroni conservava la retorica solenne del dettato figurativo e, soprattutto, l’eloquente caratterizzazione dei volti. In questi anni Ferroni inizia ad esporre anche alle Promotrici fiorentine, con dipinti oggi non più reperibili, ma che, nella scelta dei soggetti, dovevano ancora assecondare, fin dopo la metà degli anni sessanta, il gusto per l’episodio di carattere medievale o per una pittura di facile smercio: Un episodio dell’Amore nel 1863; Ramengo da Casale a Rosalia nel 1864; e nel 1865, in occasione del centenario dantesco, Dante giovanetto che scherza per la prima volta con Beatrice. La necessità di sopperire alle esigenze di una famiglia che andava rapidamente aumentando spinse ben presto Ferroni alla ricerca di fonti di guadagno in grado di garantirgli una qualche stabilità economica. Dipinti come quelli citati saranno quindi da leggersi in parallelo con l’attività iniziata, proprio in questo periodo, per il mercante Luigi Pisani: piccoli quadretti raffiguranti personaggi in costume settecentesco che venivano, per la maggior parte, girati alla Galleria Goupil di Parigi e dei quali ci resta breve menzione in uno scritto di Camillo Boito del 1873. Negli anni intorno al 1866-68 Ferroni è particolarmente vicino alle inclinazioni sentimentali contemporanee di Silvestro Lega e, di lì a poco, di Odoardo Borrani: un parallelo che la critica, in più di una occasione, non ha mancato di sottolineare. L’amicizia di Giovanni Fattori e di Cristiano Banti, quest’ultimo reduce dal suo importante soggiorno parigino nel 1861, riversava ora nelle tele di Ferroni gli echi della pittura francese facente capo al naturalismo di Jules Breton, così come gli articoli di Castagnary, apparsi nel 1867 nel “Gazzettino delle Arti del disegno”, lo incoraggiavano a rimeditare sull’opera di Gustave Courbet, fautore di un approccio ai temi del mondo rurale del tutto privo di concessioni idealistiche e capace, prima d’ogni altro, di dilatare su una scala di ampie dimensioni la dura parabola esistenziale dei suoi contadini. Sono queste le premesse della decisiva svolta compiuta da Ferroni con il quadro Le trecciaiuole, che doveva imporlo all’attenzione del panorama artistico fiorentino. Questo lo individuò come uno dei primi pittori toscani a calare, in un linguaggio permeato dalle forme della grande tradizione rinascimentale, le istanze più vivaci della poetica naturalista in procinto di affermarsi in tutto il continente. All’inizio degli anni settanta, Ferroni si trasferiva con la propria famiglia a Ponte a Signa. Il suo studio, ricavato all’interno del salone centrale della propria abitazione, era quanto di più lontano si potesse immaginare dai sofisticati atelier dei colleghi cittadini mèta di un’esigente e sofisticata clientela internazionale. Gli attrezzi agricoli sparpagliati ovunque erano gli stessi che si potevano vedere dipinti sulle tele appoggiate ai cavalletti, mentre i familiari si trasformavano quotidianamente nei modelli che via via s’accampavano sulle grandi tele illuminate dalla luce proveniente dall’aia o dall’orto adiacenti. La quieta contemplazione di quel circoscritto mondo affettivo, mèta costante delle visite degli amici pittori e critici (Fattori, Borrani, Cannicci, Signorini, Francesco e Luigi Gioli, Adriano Cecioni, Uzielli e Diego Martelli), si rifletteva anche nell’inclinazione sentimentale delle opere che Ferroni continuava a dipingere rimeditando sugli esiti della contemporanea pittura leghiana. I temi familiari, tuttavia, con sempre maggior frequenza, sembravano ora filtrare all’esterno, oltre le pareti dello studio; ora nutrirsi della luce tersa che presidiava le adiacenze della casa del pittore affacciata sulla campagna lastrigiana. Individualità e consapevole trasposizione analogica delle cadenze auliche della pittura dei maestri del Rinascimento caratterizzavano dunque, alla metà del decennio, la poetica di Ferroni. Una poetica che, dai rinnovati contatti con la contemporanea pittura francese, sarebbe uscita non soltanto confermata, ma indirizzata verso una sua propria particolare intonazione cromatica ed emotiva. Nel 1875 Ferroni si recò a Parigi assieme a Francesco Gioli, Giovanni Fattori e Niccolò Cannicci, dove espose al Salon di quell’anno. Il soggetto scelto da Ferroni doveva configurarsi, col tempo, come una sorta di vero e proprio leit-motiv all’interno della sua opera. L’amour aux champs inaugurava, di fatto, la lunga serie degli ‘idilli’ che avrebbero visto consumarsi, nell’aria immobile d’una campagna incorrotta, gli affetti e la maliziosa innocenza di giovani contadini dai volti sorridenti o candidamente turbati. È così comprensibile quanto le simpatie e le attenzioni di Ferroni si dovessero appuntare, al di là dell’immancabile confronto con le visioni dei barbizonniers, sulla poesia severa e distesa attraverso cui Jules Breton s’era fatto interprete dell’assorta solennità entro la quale pareva dipanarsi la vita dei lavoratori dei campi. Ferroni rimase affascinato dall’abilità esibita da Breton nel declinare con colta eleganza un tema a lui tanto caro, dove dolcezza e mestizia si serbavano intatte e profonde pur nella maestosità dell’impianto figurativo. Nel 1876 l’ingresso nella vicenda umana e artistica di Ferroni di Gioacchino Herts Conte di Frassineto fu salutato come un segno della provvidenza. Un’apparizione improvvisa, ed insieme attesa, che dovette in qualche modo indurre Arrigo, il figlio del pittore, a ritenere superfluo il dilungarsi sulle reali circostanze dell’incontro fra suo padre e colui che ne sarebbe divenuto il più importante e fedele committente. Da questo sodalizio scaturirono tredici grandi tele di soggetto agreste che, nell’arco di vent’anni, dal 1876, l’artista dipinse per le pareti del salone delle feste posto al primo piano della Villa, acquistata da Gioacchino in territorio aretino, presso il borgo di Frassineto. L’impresa, alla quale era stato inizialmente chiamato a collaborare anche Antonino Leto, intendeva recuperare, sul piano di una consapevole analogia, il significato e il fascino delle decorazioni ad affresco che ornavano gli interni delle grandi dimore rinascimentali. Negli anni del ciclo di Frassineto cadeva l’esecuzione di molti dei dipinti che avrebbero accresciuto la fama di Ferroni. Uno dei più noti, infatti, Alla fontana veniva ad inserirsi fra La barca, saldata nel febbraio del 1879, e la fase iniziale della lavorazione de Il Carro. Rispetto a questi, tuttavia, la solarità dell’immagine della tela Alla fontana era segnata da un soffuso velo di malinconia. Negli anni successivi il tema della gelosia, presente all’interno del quadro, doveva incontrare molta fortuna fra i naturalisti toscani. Infatti senza toccare gli accenti drammatici di Cavalleria rusticana, andata in scena per la prima volta nel 1890, o i toni esacerbati delle novelle di Verga come La lupa, il manifestarsi d’un inquieto sentimento di gelosia, che, improvviso, incrina lo specchio terso di un mondo pacificato, avrebbe lasciato chiare tracce anche nell’opera di un maestro come Arturo Faldi. Gli ultimi due decenni del secolo videro muovere coerentemente la pittura di Ferroni entro l’alveo delle visioni ‘virgiliane’ trasfuse nel ciclo di Frassineto. “Eventi tristi e casi dolorosi”, come ricorda Arrigo Ferroni, interruppero “[il] fervore del lavoro” (4). Infatti, la morte del figlio Raffaello, appena ventiduenne, gettò il pittore nel più tetro sconforto, spezzando così per sempre l’appartata sicurezza in cui aveva scelto di vivere, protetto dalle sue tranquille e solitarie visioni nonché dall’affetto della sua famiglia. Da allora Ferroni, che in quegli anni aveva pur ricevuto numerosi consensi con i suoi quadri inviati alle grandi rassegne di Venezia (1887), Londra (1888) e all’Esposizione Universale di Parigi (1889), avrebbe dipinto saltuariamente, con punte di inattività sempre più prolungate. Dell’ultima maniera del maestro restano tracce incompiute, seppur ancora toccanti. Egisto Ferroni moriva il 25 maggio 1912. Due anni prima, coloro che avevano visitato la retrospettiva organizzata dalla Società delle Belle Arti di Firenze erano sfilati, senza saperlo, davanti a tutta la sua vita. Nelle stanze di via della Colonna, accanto ai suoi amati temi agresti, c’erano il piccolo quadretto della Visita, uno dei bozzetti de La Barca eseguita per Frassineto e Alla fontana: le strofe d’un canto che ormai poteva essere udito solo dalla terra che li aveva ispirati.

Il ciclo di Frassineto

Nel ricordo di Arrigo Ferroni, la commissione delle grandi tele per la Villa di Frassineto nell’aretino aveva coinciso con un momento particolarmente difficile della vita di suo padre. Il mercante fiorentino Luigi Pisani, nel tentativo di costringere Ferroni ad una pittura dagli esiti maggiormente redditizi, e dunque lontana dai toni severi che caratterizzavano le sue composizioni, “lo aveva minacciato di togliergli ogni commissione se non si fosse piegato a fare un’arte più commerciale” (5). Non potendo assecondare, per naturale inclinazione, le richieste del gallerista, per di più gravato dal peso di una famiglia che ormai, nel 1876, contava ben sei figli, Ferroni si era trovato in una situazione di vero e proprio impasse. Non sappiamo attraverso quali canali, Gioacchino Herts Conte di Frassineto (1825-1888), ricco proprietario terriero d’origine settentrionale, fosse entrato in contatto con Ferroni. Il sodalizio fra i due si sarebbe, tuttavia, trasformato in un caso di mecenatismo artistico che, fedelmente protrattosi nell’arco d’un ventennio, non avrebbe trovato analoghi termini di paragone nella pittura italiana dell’Ottocento. Non si può escludere che uno dei tramiti possa esser stata la presenza a Firenze, nel 1876, del pittore di origine siciliana Antonino Leto. Proprio in quell’anno, infatti, ad entrambi i pittori e non al solo Ferroni, come si è sempre creduto, il Conte di Frassineto affidava la decorazione del grande salone delle feste situato al piano nobile dell’antica villa cinquecentesca, le cui finestre si affacciavano sulla circostante e bellissima campagna aretina. Stando alla documentazione ancor oggi presente nell’archivio di famiglia, consistente in trentatré carte (una ricevuta di pagamento firmata da Leto, trentadue quelle firmate da Ferroni), possiamo ricostruire con sufficiente sicurezza le tappe che scandirono l’esecuzione di queste vere e proprie “panatenaiche della pittura Toscana” – per citare una felice definizione di Carlo Sisi. Rimane peraltro da chiedersi se questo straordinario ciclo decorativo composto di quattordici tele dai colori vividi e vibranti – nove di grandi dimensioni, cinque di media superficie – sia stato deciso e pianificato sin dall’inizio, nei termini che noi oggi conosciamo. Se non la trama iconografica, chiara almeno doveva essersi profilata, da subito, l’intenzione di recuperare analogicamente il significato e il fascino delle decorazioni ad affresco che ornavano gli interni delle grandi dimore rinascimentali, dove l’artificio artistico, come nell’illustre precedente della Villa Medicea di Poggio a Caiano, intendeva suggestivamente annullare il divario fra spazio interno e spazio esterno, collocando le storie antiche dipinte alle pareti sullo sfondo di quegli stessi paesaggi che si offrivano agli ospiti dal corridoio terrazzato della villa. Il fatto di non aver potuto accedere, causa il cortese ma fermo rifiuto degli attuali proprietari, agli ambienti del primo piano dell’edificio, ci consente purtroppo di formulare soltanto una ricostruzione ipotetica di quella che doveva essere la disposizione originaria delle quattordici tele, riquadrate da cornici in stucco, lungo il perimetro del salone. Non possiamo affermare con certezza quanto il ciclo rifletta un programma iconografico preventivamente e dettagliatamente stabilito in ogni suo elemento. È certo però che il rapporto fra le otto grandi tele di formato verticale concepite come coppie di pendants a coronamento di una grande scena finale isolata su una delle due pareti corte risulta talmente stringente da avallare un’ipotesi in tal senso. Considerate le misure e i soggetti, le nove grandi tele – otto delle quali raggiungono quasi tre metri di altezza si suddividevano in quattro coppie e in un’ultima imponente scena rurale: La contadina con le capre di Antonino Leto (attualmente irreperibile) e il Ritorno all’ovile; La barca e Il carro; La caccia e La pesca; La musica e La danza; e infine L’infioccatura. Fra il 1876 e il 1877 Antonino Leto e Egisto Ferroni portavano a termine le prime due scene: La contadina con le capre e il Ritorno all’ovile. Ferroni vi dispiegava un animo finalmente rasserenato, ben lontano dallo spirito che aveva dettato la commossa visione de La boscaiola compiuta appena un anno prima. La pittura corposa e vibrante fermava le giovani contadine contro il sipario del cielo rendendo, se è possibile, ancor più sonora l’improvvisa risata della bambina. La barca veniva compiuta fra il 1877 e il 1878 e in quello stesso anno inviata all’Esposizione Universale di Parigi col titolo Les bords de l’Arno, en été. All’incantata trasparenza cromatica di questo dipinto Ferroni contrapponeva la scena de Il Carro, quasi a voler sottolineare con forza il profondo legame che, scandito da leggi immutabili, legava le sue creature agli elementi primigeni della natura – l’acqua e la terra –. Ancora cinque contadine sorridenti che si recano al lavoro, ugualmente distese fra fasci d’erba intrisi di fiori, sul pianale di un veicolo mosso dalla forza calma e paziente dell’animale sferzato dall’uomo. L’opera, preceduta come nel caso de La Barca da una nutrita serie di bozzetti e di disegni, era costata a Ferroni ben tre anni di lavoro, nel corso dei quali avrebbero visto la luce anche due delle sue opere più famose: Alla fontana e Ai campi. Il Conte di Frassineto e suo figlio Alfredo decisero di inserire le proprie effigi nel ciclo non in forma di ritratti aulici e severi, ma di immagini che li raffigurassero liberi nell’atto di godere i piaceri di un’esistenza lontana dall’assedio degli affanni cittadini. La caccia e La pesca (entrambe 1882-84) li mostrano, uno davanti all’altro, in un sospeso dialogo di gesti che secoli prima, nell’ozio di qualche villa suburbana, i versi degli umanisti avevano già descritto e celebrato. In abiti semplici ed eleganti, che una pittura dai toni brillantissimi faceva risaltare a contatto del cielo sfilacciato di nubi o del verde intenso delle canne palustri, due generazioni si confrontavano e si riconoscevano nello spazio d’una sala che si apriva, nell’immaginazione, ad un sentimento del tempo innervato di partecipata armonia. Dopo le raffigurazioni idilliache dei Conti di Frassineto, Ferroni si dedicò alle ultime due composizioni di soggetto verticale: specchio e ricordo dell’uso a cui quella sala era stata riservata. Infatti i passi di quanti si fossero abbandonati a La musica e a La danza si sarebbero riflessi in suoni e movenze dal sapore antico, eseguiti, con grazia e allegria, da strumenti semplici e cuori privi di affanni, sorretti da una felicità breve ed intensa, simile a quella dell’aria che, ne La musica, muta in ombre lontane le sagome degli uccelli nel cielo chiaro. Il grande ‘telero’ che chiudeva il ciclo di Frassineto, il rito de L’infioccatura, dominava, probabilmente, una delle due pareti corte del salone. Ferroni vi si sarebbe dedicato dal 1890 al 1894, spegnendo la sua tavolozza in un’aria più tersa e velata, quasi priva di ombre con uno stile corsivo ed abbreviato. I protagonisti della tela, che l’artista andava dipingendo nella sua abitazione di campagna, vivevano di gesti assorti come irretiti dalla vastità del cielo sospeso sulle pietre dell’antico cortile. La pennellata si era fatta più magra e delicata, suggerendo, nella stesura del colore, una consonanza con la scabra superficie di un muro piuttosto che con la tramatura della tela. Diversa risultava anche l’intonazione sentimentale di quell’ultima dilatata strofa poetica, dove ogni particolare pareva venir contemplato, da Ferroni, dal fondo del suo consapevole isolamento interiore. Al clima rarefatto della grande tela con L’infioccatura era riservato il compito di raccogliere e decantare i mutevoli accenti d’appagante serenità, dispiegati dai dipinti or ora ricordati; invece, le cinque tele più piccole, Il mazzo di fiori (1880-85), Alla fonte (1885-90),Ferroni, Alla fonte.png Idillio campestre (1890-95), Il bagno in Arno (1896) e La mietitura (1896), che probabilmente fungevano da sovrafinestre o sovraporte, dovevano costituirne il prezioso contraltare sentimentale. Infatti, le composizioni erano raccolte in una quiete profonda, o appena sfiorate da un’allegria spontanea e leggera, dove, ancora una volta, fili di esistenze umili e innocenti si intrecciavano al calore della terra o al vitale refrigerio dell’acqua. Le cinque tele segnavano, come pause liete ed ispirate, il lungo fregio policromo degno d’una dimora antica, nel quale il dilatarsi dell’immagine suggeriva un analogo dilatarsi del tempo, fino a creare l’illusione che soltanto la perenne giovinezza dei suoi personaggi fosse destinata ad abitarvi.

 

(autore: Andrea Baldinotti)


Note:

  • R. Monti, Intorno a Rosai, in Ottone Rosai nel Centenario della nascita. Opere dal 1919 al 1957, cat. della mostra Firenze, Firenze 1995, p. 16.
  • E. Somaré, L’opera di Egisto Ferroni. Con una vita del pittore narrata dal figlio Arrigo, Milano 1939, p. 25.
  • Ibidem.
  • Ibidem, p. 37.
  • Ibidem, p. 36.

 


Ferroni, I due vangatori.jpg
Ferroni, I due vangatori, 1855-1856, Collezione privata