Cabianca, Vincenzo
Nato a Verona il 20 giugno 1827 da Giovanni, vicentino, e dalla veronese Maria Pipa, dopo aver frequentato per tre anni il ginnasio presso il seminario vescovile di Verona, passò all'Accademia Cignaroli della stessa città, dove ebbe maestro, dal 1842, G. Caliari, che l'avviò allo studio della figura secondo i tradizionali, rigorosi metodi accademici aggiornati con sensibilità "purista" (cfr. una lettera inviata nel 1846 da Venezia al maestro). Per il Caliari nutrì stima e affetto; alla sua morte (1860) ne litografò il ritratto. Il 13 nov. 1845 si iscrisse all'Accademia di Venezia, che però frequentò svogliatamente.
Dopo una breve permanenza a Bologna (vi si era rifugiato per sfuggire, in occasione della guerra del 1848, alla coscrizione austriaca e vi aveva conosciuto il pittore F. Mazzi, professore all'Accademia), il Cabianca ritornò a Verona nel 1849 e qui (salvo un viaggio a Milano nel 1851, durante il quale pare abbia conosciuto Domenico Induno) dimorò fino al 1853, quando, con l'intento di aggiornarsi, si recò a Firenze con lettere di raccomandazione per il pittore e restauratore G. Bianchi e per il pittore di corte G. Signorini, padre di Telemaco. Con quest'ultimo e con Odoardo Borrani strinse subito viva amicizia, come c'informa il Cecioni, entrando a far parte di quel gruppetto del "caffè dell'Onore", in Borgo La Croce, che poi si trasferirà al caffè Michelangelo (1855) e sarà dei macchiaioli.
Fino a quel momento il Cabianca si era dedicato al quadretto di genere (con figure in costume settecentesco), al ritratto (notevole quello del fratello Domenico e il proprio) e qualche rara volta anche alla veduta (Chiesetta di S. Onofrio a Verona, del 1849), seguendo un gusto che (pur aggiornato da quello che egli chiama "sensismo" e che vorrà significare, in clima di poetica romantica, una specie di "verismo" nella sintesi pulita dei puristi) non può certo dirsi antiaccademico.
Non mancano spunti autobiografici (In gran boleta, del 1849, con riferimento alle sue condizioni economiche durante l'"esilio" bolognese) e prese di posizione polemiche, quasi denunce (Rifiuto di elemosina del patriarca di Venezia, del 1850 circa), che documentano il suo carattere vivace, nel clima che s'era venuto a creare in Italia con le delusioni per la politica di Pio IX. Sono in realtà scene di genere - una specie di quadri storici di contenuto feriale - realizzate con un cromatismo che, pur sentendo ancora della tradizione, lascia prevedere particolari interessi per i problemi di luce. Rari sono i soggetti religiosi (S. Eufemia, del 1851), ancora vincolati, attraverso il maestro, ai modi dei Cignaroli, che a Verona avevano lasciato una buona scuola e una lunga tradizione. Appena giunto a Firenze, il Cabianca aggiornò i contenuti adeguandosi ai gusti e alla cultura del nuovo ambiente. Erano passati sei anni dalle prime esperienze, caratterizzate da una ricerca che lo portava verso i contrasti di luce per macchie di colore, stese con pennellata rapida e briosa, che non tarderà a diventare pittura di "macchia".
All'esposizione di Belle Arti (Firenze) del 1854 il Cabianca espose quattro dipinti (tre ritratti e un quadro di genere: Uva malata); alla Promotrice (Firenze), nel 1855, altri quattro, tutti di genere (Una confidenza, La disdetta di casa, Il magnetismo, La miseria); nessun paesaggio. Ma molti ne dipinse dopo il 1855, con gli amici del caffè Michelangelo, all'aria aperta, sul vero; con Cristiano Banti in particolare, con il quale, dopo aver percorso in lungo e in largo la Toscana, si spinse fino a Napoli e poi, all'indomani della battaglia (giugno 1859), a Solferino e a S. Martino, dove prese appunti a matita o ad olio che solo in minima parte furono sviluppati e "finiti" in studio.
Nel 1859 il Cabianca era a La Spezia con Banti e Signorini. Nello stesso anno, alla Promotrice, esponeva ancora quattro opere. Insieme al soggetto storico (Novellieri fiorentini del Trecento, ora alla Galleria d'arte moderna di Firenze, Dante nel Casentino del 1853-54, andato disperso con la raccolta Checcucci, e Il ratto di Piccarda Donati) e a quello di genere (Ricognizione per sorpresa), omaggi al gusto del tempo, erano due documenti delle sue recenti peregrinazioni "alla macchia": Reminiscenze nelle vicinanze di S. Martino e Avanzi della chiesa di S. Pietro a Portovenere.
Il Cabianca era, generosamente, nella pattuglia di punta. Gli stessi suoi amici del caffè Michelangelo, e Fattori in particolare, gli riconosceranno il merito di aver battuto tra i primi la strada della "macchia" con opere polemiche, come il famoso Porco nero contro il muro bianco del 1859. "Egli è un "macchiaiolo" vero, senza esitanza, senza pentimenti; è emancipato dal pregiudizio della bella linea; quando essa gli capita sul vero, la riproduce tale e quale, ma non la cerca, non la inventa" (Cecioni).
Risalgono al 1855 le prime impressioni di paese e di costume nel gusto nuovo, che però aggiustano ancora il vero con qualche inserto scenografico (Viale alle Cascine); un paio di anni dopo vi si nota (sono di solito cartoni o tavolette di piccole dimensioni) un'immediatezza sorprendente (Studio di donna a Montemurlo e Viareggio del 1859, Case a Lerici del 1858: tutti e tre alla Galleria nazionale d'arte moderna di Roma), senza dispersive indulgenze per i particolari e con quei forti polemici sbattimenti di luce che caratterizzano la sua pittura degli anni intorno al 1860 (Cave a La Spezia, Nuvola, Cortile rustico, alla Galleria d'd'arte moderna di Firenze). A dire il vero, anche in questi anni, e dopo, accanto alle impressioni di paese troviamo soggetti che si potrebbero definire di genere, anche se ridotti a una sola figura (L'abbandonata, del 1858, e La pensierosa, collocabile verso il 1870): riflessi di letteratura tardoromantica.
Nel 1861, con il Banti e il Signorini, il Cabianca andò a Parigi. Il figlio Silvio, in una nota biografica dedicata al padre, precisa che quel viaggio non ebbe conseguenze vistose; l'artista ammirò specialmente Decamps (le simpatie di Signorini andarono invece a Corot e a Troyon), ma, tornato a Firenze, continuò per la sua strada. Nello stesso anno, alla I Mostra nazionale di Belle Arti, presentò alcuni paesaggi (tra i quali Ferriera nella Versilia), che passarono inosservati, mentre a Torino ottenne un certo successo un dipinto che replicherà in anni tardi: Le monachine. Non maggiore fortuna ebbe nella Mostra fiorentina del 1863, dove espose cinque dipinti, tra i qualiBarca a rimorchio, Mattino nei dintorni di Firenze e Crepuscolo; è una pittura veloce e sintetica nei bozzetti, ligia all'aneddoto ed eccessivamente descrittiva nei quadri finiti.
Tra i dipinti più significativi di questi anni, Liguria e Lo stalletto (Galleria d'arte moderna di Roma e Firenze).
Nel 1863 il Cabianca si trasferì a Parma, ospite del pittore C. Barilli, conosciuto a Firenze. Alla fine del 1870 con la famiglia, che nel frattempo (1864) s'era formato, prese dimora stabile a Roma, accogliendo l'invito di Nino Costa. Qui ebbe modo di conoscere l'ambiente artistico che gravitava intorno al Costa, e in particolare, più tardi, O. Carlandi, E. Roesler Franz, M. De Maria e G. A. Sartorio, con i quali, auspice il Costa, fondò il sodalizio "In arte libertas".
Il Cabianca si era già da tempo dedicato all'acquarello, che ora diventò la tecnica preferita, anche perché gli dava modo di collocare i suoi dipinti in Inghilterra, dove l'acquarello era particolarmente apprezzato. Partecipava, quasi ogni anno, a collettive in città inglesi e vi organizzava personali (a Londra, a Glasgow, a Edimburgo); ma esponeva anche in altre città d'Europa (Parigi, Amsterdam) e d'America. Sviluppava abilmente note di paese e di costume prese dal vero negli anni precedenti, in forme che col tempo si vennero facendo più stanche, fino a diventare scontate.
Tra il 1881 e il 1888 fu spesso ospite di D. Martelli a Castiglioncello; ne vennero fuori ancora buone cose, dal vero. Nel 1893 rimase semiparalizzato, ma i suoi dipinti continuarono a comparire nelle esposizioni; anzi nei primi mesi del 1902 si allestì a Roma una sua personale, con molte opere, presso la Società degli amatori e cultori, di Belle Arti (cfr. catal.; v. anche recensione di L'Italico [P. Levi], in La Tribuna,Roma, 13 apr. 1902, e quella di R. Artioli, in L'Italia moderna, 20 aprile 1902).
Morì a Roma il 22 marzo 1902.
(fonte: Ferdinando Arisi in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 15, 1972)